Stai seguendo, giorno per giorno, il processo a Derek Chovin, l’ex agente che ha ammazzato George Floyd a Minneapolis poco meno di un anno fa. Poi arrivano la notizia e l’immagine dell’omicidio di Adam Toledo: un ragazzino ispanico ammazzato di notte in un vicolo di Chicago mentre si trova fermo, in piedi contro uno steccato, a mani alzate. Possibile, dici, che sia tutto così facile? Ti torna alla mente l’aria indifferente dell’agente Chauvin, che si guarda intorno mentre ammazza George, tenendo una mano in tasca e con gli occhiali da sole alzati sulla fronte come se stesse comprando il giornale all’edicola.

Ripensi all’agente che ha inseguito e ucciso il ventenne Daunte Wright nei pressi di Minneapolis l’11 aprile, dicendo poi di avere confuso il taser con la pistola.
Rifai i conti, e verifichi: la progressione è lineare. Nell’ultima decina d’anni, gli omicidi della polizia negli Usa non sono mai stati meno di mille all’anno. Uno più, uno meno: tre al giorno. In proporzione ai gruppi sociali, gli uccisi bianchi sono tot, gli ispanici sono quasi due volte tot e i neri sono oltre due volte e mezza tot; poi vengono gli asiatici, i fuori di testa e quelli di cui non si conoscono i connotati.

Quelli del processo sono giorni tesi. Sia perché si attende il suo esito, sia perché si addensa una sequenza particolarmente fitta di «massacri» come se quello compiuto da Tim McVeigh il 19 aprile 1995 a Oklahoma City e quello alla scuola Columbine di Denver il 20 aprile 1999 continuassero a esercitare un’attrazione perversa. E destabilizzante.

Alla fine, il processo di Minneapolis arriva alla sua conclusione. La giuria si ritira e resterà in isolamento fino a quando avrà raggiunto il suo verdetto. Quando è sicuro di non interferire con il lavoro dei giurati, il presidente Biden rilascia una dichiarazione: «Prego perché il verdetto sia quello giusto. Per me le prove sono travolgenti». Le polizie di tutto il paese si mobilitano; la tensione è molto alta a Chicago e la Guardia nazionale viene schierata a Minneapolis, nell’eventualità che il verdetto possa essere non-giusto. Non sarebbe la prima volta, come tutti sanno. E invece il verdetto è giusto, e sarà severo. Chauvin è stato giudicato colpevole di tutte le imputazioni che gli erano state addebitate. La pena sarà decisa nelle prossime settimane, quando inizierà il processo anche agli altri tre agenti che erano con lui quel 25 maggio.

Le tensione si allenta pressoché ovunque. Biden farà appena in tempo a dichiararsi «sollevato» per il verdetto e perché il paese sembra avere appena scampato il pericolo di una nuova sollevazione. (Il giorno dopo dirà che è stato «un gigantesco passo avanti sulla strada verso la giustizia in America».)

Ma è una questione di minuti e arriverà la notizia di una nuova uccisione poliziesca. Infatti, quello stesso pomeriggio a Columbus, la capitale dell’Ohio, la sedicenne Ma’Khia Bryant è stata ammazzata con quattro colpi di pistola. Chiamato a intervenire in una lite tra ragazze, uno degli agenti ha «riportato la pace», sparando contro Ma’Khia, che dopo avere buttato a terra una delle ragazze, ne stava aggredendo un’altra con in mano un comune coltello da cucina. In pochi secondi, l’agente è sceso dall’auto e ha ucciso Ma’khia.

Così. Anche in questo caso, come in quello di Adam Toledo, a mostrare lo svolgimento conclusivo dell’intervento poliziesco è la body cam, la camera fissata sul petto dell’agente. Era stata introdotta meno di 10 anni fa, presumendo che avrebbe reso meno violenti, più responsabili i comportamenti dei poliziotti. Invece continua solo a mostrare la disinvoltura e indifferenza con cui le polizie usano le armi.