Human after all. Non sembri blasfemo, ai fedeli del culto Autechre, che ci si arrischi a citare i Daft Punk – la cui retro-disco in confronto evoca un sapore di gomma da masticare alla fragola – per parlare del loro ultimo Sign, uscito puntualmente per la Warp Records di Sheffield, la Casa Ricordi dell’elettronica. Perché davvero è un lavoro che per la prima volta in un ventennio lascia cogliere le silhouette degli autori, come se il formidabile dispiego di macchine utilizzato – da loro stessi sinistramente denominato «the system» – si fosse improvvisamente fatto trasparente.

PARTIAMO PRIMA dalla forma, che da sempre – ricambiata – ama e odia il contenuto. Ebbene, in Sign come diceva Francesco De Sanctis a proposito della scrittura di Machiavelli, la forma è la cosa, la tensione fra le due è riconciliata. Non solo un titolo intellegibile, dopo una sequela snervante di titoli ottenuti buttando alfabeto e numeri in un frullatore: un titolo intelligente, che punta verso un senso compiuto. Poi la forma album: 11 brani esauribili in una comoda oretta, quando le ultime loro uscite viaggiavano sulle ali di interminabili show radiofonici (le Nts Session, otto ore) o manciate di Cd a botta (Exai, elseq). Quella che fino a poco fa era autentica incontinenza è stata presa per la collottola e ricondotta a più miti consigli.

INFINE, LA COPERTINA. Solito pezzo di bravura dei grafici Designer’s Republic (anch’essa di Sheffield), non solo raffigura un’immagine meno astratta del solito, addirittura reca neoclassicamente il nome della band e il titolo: una commerciale esigenza discografica che Peter Saville aveva trasceso già negli anni Settanta nelle sue leggendarie cover per la Factory Records. Come non notare poi l’omonimia, di certo non casuale, con il capolavoro dei Clock Dva dei primi anni Novanta, quel Sign che non solo ha lo stesso titolo, ma reca una copertina non del tutto dissimile?
Venendo poi al contenuto: niente più beat frastagliati come fiordi norvegesi, quegli algo-ritmi/sculture sonore con il turbo il cui scopo dichiarato è far impazzire orecchie e cervello. Che ti impediscono di elaborare (lo preferiamo all’uso cialtrone di processare) uno straccio di segno musicale, appunto. Volendo semplificare sciattamente, il loro modus operandi compositivo è sempre stato scandito dalla giustapposizione dello yang ritmico allo yin (cui oggi subentra naturalmente lo yuen) dell’armonia. Ma se negli ultimi decenni quest’ultimo aveva cominciato nettamente a scarseggiare, in Sign – che lo ripetiamo, stupisce per l’organicità – è tornato prepotentemente in primo piano, a contraddistinguere il tono di quasi tutti gli undici brani.

PERMANGONO le magnifiche zaffate di suono «synthetico», quel vento siderale che sembra irrompere quando si apre per sbaglio la porta di una navicella spaziale (succederà quando qualche ricco idiota a bordo di un volo commerciale di Elon Musk sarà colto da un attacco di panico). Dopo tutto stiamo parlando di ingegneri del suono non nel banale senso professionale, che scrivono codice e costruiscono le proprie macchine: roba da far sembrare Brian Eno un fricchettone con l’ukulele.
Eppure, è tutto quasi «tonale», al servizio di quella che sembra un’elegia sensoriale: si00 è deliziosamente liquida, esc desc, th red a e Metazform8 solenni e drammatiche, sch.mefd 2 rimanda ai fasti di Lp5, capolavoro degli anni Novanta, mentre psin AM è lirica come solo i Boards of Canada. Insomma, se i lavori precedenti nella loro impersonalità macchinica ammonivano sulla distopia a venire, questo ne commenta l’avvenuta tragicità.

ROB BROWN E SEAN BOOTH da anni non lavorano più nello stesso spazio, preferendo scambiarsi digitalmente patch di composizioni sulle quali intervenire a vicenda. La loro vita professionale deve esser stata al massimo scalfita dal lockdown; eppure difficile non cadere nella trappola di leggere questa brusca inversione nel pathos come un commento sullo stato miserrimo e disgraziato in cui versa l’umanità in barba a tutta la sua tracotanza tecnologica. Una sorta di requiem per questo pianeta di delinquenti malati col volto coperto dove gli uni cercano di eliminare l’altro e viceversa. Un segno tanto terribile da farli scendere dalla loro torre di silicio.