Con l’«inspiegabile» elezione di Jeremy Corbyn a leader del partito laburista si compie una specie di omerico nostos (ritorno), quasi un riavvolgimento veloce di una pellicola scritta e interpretata dalla generazione politica precedente (che poi, anagraficamente, è la sua): il film degli anni Novanta, del Labour tre volte vincitore, dei brindisi e pacche sulle spalle coi banchieri barracuda, delle pseudo-diatribe fra Blur e Oasis, nell’arte elettrizzante e ombelicocentrica di Damien Hirst e Tracy Emin, dell’aromaterapia come sostituto dell’analisi politica, della crescente marginalizzazione del sindacato e la dissoluzione del diritto del (e al) lavoro.

Fatti che a loro modo tendono verso una coesistenza – nefasta perché rilassata – con quegli stessi guasti sociali che si era nati per combattere; e nel realizzare la quale il partito ha vissuto la stessa trasmutazione sociale e culturale che fa sembrare oggi Corbyn un reperto della guerra fredda, o al massimo uno con cui si andava a Glastonbury quando il festival era ancora senza recinzione.

Ma è anche e soprattutto il riavvolgimento affannoso di un film il cui promesso lieto fine è naufragato nell’orrore dell’attacco illegale all’Iraq, un atto di tardiva hubris imperialistica in stile Suez che in Tony Blair ha mescolato un certo fondamentalismo cattolico del personaggio con l’innominabile subalternità del paese ai dettami statunitensi in ogni aspetto della politica estera. Un’invasione con la cui pioggia di conseguenze catastrofiche tutto il mondo si sta confrontando, seguita da una crisi causata in buona parte da quegli stessi banchieri con cui si brindava e con i quali regna ora un enorme imbarazzo.

Una crisi, infine, ora inflitta, acuita e sfacciatamente mistificata dalla maggioranza conservatrice al potere e della quale nessuno degli altri candidati alla direzione ha saputo parlare senza far ricorso a formule dalla vacuità ormai letale.
Forse, a voler risalire al fenomeno significativo più recente, l’ultima goccia per tanti, tantissimi militanti è stata l’astensione recente dell’ala parlamentare del partito dal votare contro le misure di macelleria sociale del duo Cameron-Osborne, successive alla tragica sconfitta incassata da Ed Miliband.

Da qui sgorga l’insignificanza delle candidature di Burnham, Cooper e Kendall, tre tecnocrati abituati a esprimersi in un gergo post politico nel quale non sembrano credere nemmeno loro. È stato qui che la domanda dolorosa «cos’è questo Labour Party?» deve aver risuonato come un disco rotto dentro la coscienza di centinaia di migliaia di nuovi simpatizzanti e militanti.

Tanto da spingerli alla formidabile mobilitazione che ha portato alla più improbabile vittoria politica dei nostri tempi: quella di Corbyn Jeremy, deputato di Islington.
Un esito tanto spettacolare da non lasciare dubbi sul senso anche di panico diffuso che di certo alberga in molti: fatto sta che questo partito, enorme e stratificato, che in preda a un incauto sussulto democratico si è appena consegnato nelle mani di uno dei suoi membri più periferici e minoritari, è quanto di più vicino la Gran Bretagna abbia saputo contribuire al vento di cambiamento che attraversa svariate realtà socialdemocratiche europee.

A volte ritornano dunque. Ed è un brusco risveglio per chi ha davvero creduto, molti per convenienza, altri per principio, che il Labour avesse davvero tagliato i ponti con la propria matrice socialista, remando lesti e fiduciosi verso l’infinito progresso assicurato dall’ortodossia neoliberale.

Mentre pare essersi compiuto lo strappo definitivo con l’eredità thatcheriana colata non troppo misteriosamente nel ricettario di Tony Blair e perpetuata in modo barcollante dai suoi successori, Ed Miliband compreso.

La scomposta uscita con cui Blair avrà fatto guadagnare al mite Jeremy un fottio di voti è in questo senso emblematica: «Se il vostro cuore è con Corbyn» aveva detto il pragmatico Tony, «fatevi fare un trapianto». Loro hanno invece preferito estirpare – perlomeno per i prossimi cinque anni da qui alle elezioni politiche – la gramigna thatcheriana dal cuore del partito. Che irriconoscenza.