Le bandiere bianche dell’Emirato islamico sono già sfilacciate. Consumate dal vento, perdono pezzi di stoffa, a soli nove mesi dalla conquista del potere dei Talebani. Qui a Herat ci sono arrivati il 12 agosto 2021, dopo diversi giorni di dura offensiva intorno alla città. A inizio agosto, i canti e le invocazioni corali, ripetute da un tetto a un altro – «Allah Akbar», «Allah Akbar» – avevano dato l’illusione che la città tenesse. Pochi giorni dopo, i Talebani erano arrivati all’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul.

«ABBIAMO DOVUTO FARLO per proteggere la popolazione, non c’era più alcuna istituzione in piedi. Era tutto collassato», ci dice Shir Ahmad Amar Mohajer, responsabile per il ministero degli Esteri dell’intera area occidentale: «è un’area importante, grazie ai confini con l’Iran e con il Turkmenistan. I rapporti con l’Iran non sono buoni come vorremmo, ma stanno migliorando», assicura.

Mohajer si lamenta dell’ostilità della comunità internazionale, specie di Washington. Chiede il rilascio dei fondi della Banca centrale afghana, circa 9 miliardi di dollari, di cui 7,2 negli Stati Uniti. Si fa portavoce di una convinzione che abbiamo sentito ripetere spesso nei giorni scorsi, tra i Talebani: «l’Emirato ha rispettato e rispetta ancora l’accordo di Doha», firmato nella capitale del Qatar nel febbraio 2020 con gli americani. Prevedeva il ritiro in sicurezza delle truppe statunitensi in cambio di una generica disponibilità dei Talebani ai colloqui di pace con gli altri attori politici afghani. Come sia andata, lo sappiamo. Ma per Mohajer, «non siamo arrivati al potere con la forza. Siamo intervenuti per la sicurezza del popolo. Sono gli americani che non rispettano i patti e non vogliono riconoscere il nostro governo».

La dogana di Herat, foto di Giuliano Battiston

A HERAT ora è tutto in mano ai Talebani. Il commercio transfrontaliero, le sedi istituzionali, l’importante dogana. A presiederla c’è un mawlawi dalla stazza imponente e lo sguardo dubbioso. Parla poco, il mawlawi Saeed, che viene dalla provincia di Kandahar. Quanto incassa la dogana al mese? Non si sa. Quanti mezzi pesanti attraversano ogni mese la frontiera di Islam Qala? «Almeno 2.000. No, almeno 3.000». Intorno a lui, ci sono una decina di funzionari del vecchio regime. Si guardano tra loro, bisbigliano, cercano di intervenire. «Tra i 3.000 e i 6.000», corregge il tiro il mawlawi di poche parole. Un lungo silenzio fa seguito alla domanda sull’aumento delle entrate della dogana. Poi la risposta: «più 34%». D’altronde, spiega il clerico, «prima l’80% delle imposte finiva in corruzione, ora il 100% va nelle casse dell’Emirato». Fuori, nell’enorme parcheggio che accoglie decine e decine di Tir e grandi depositi merce, alcuni trasportatori confermano: «non si pagano più le mazzette, ma l’economia è ferma, non ci sono soldi. Si lavora il 50% meno di prima».

Appena fuori Herat è nelle mani dei Talebani anche la base militare che per lunghi anni ha ospitato il contingente italiano, a cui spettava la responsabilità, sotto mandato Nato, dell’intera area occidentale. Qui l’8 giugno 2021 il nostro ministro della Difesa è andato ad ammainare la bandiera italiana. Accompagnato da 40 giornalisti embedded, Lorenzo Guerini ha ringraziato i soldati per aver saputo «cogliere le esigenze del popolo afghano e delle sue istituzioni che abbiamo accompagnato nel percorso di costruzione di un paese più sicuro, più libero e più democratico».

«NON È MAI STATA così sicura la strada», ci dice l’autista del taxi collettivo che per 500 afghanis (circa 5 euro) e 3 ore e mezzo di viaggio ci porta da Herat a Farah. È il mantra preferito dei Talebani, di qualunque rango e ruolo: «Che mi dici della sicurezza? Hai visto quanta sicurezza, ora che c’è l’Emirato?». Lungo la strada, procedendo verso sud, alcune tende dei kuchi, i ‘nomadi’ pashtun. Piccole postazioni militari crivellate di colpi, abbandonate, portano i segni della guerra. Le più grandi, ancora attive, sono un bel regalo ai Talebani. Shindand e Farah Rud, tra i distretti più conflittuali e problematici per i soldati italiani, sono pacifici. Il sole picchia duro. Pochi i mezzi per strada. Ancora meno quelli che, dopo Farah Rud, lasciano la ring road – l’anello stradale principale del Paese – per puntare verso Farah.

Il paesaggio cambia, si fa più morbido, i colori virano al giallo sabbioso. Ai bordi della strada contadini, vecchi e bambini, tagliano e raccolgono il grano. Un giovane allunga la mano alla moglie che supera un fosso. L’arco che annuncia l’ingresso alla città è puntellato di colpi. Il mujahedin armato a presidio è annoiato: neanche uno sguardo. Al centro della città, sotto un enorme rotonda a forma di cesto di frutta, un poliziotto fa finta di governare il traffico. La sede del dipartimento per l’Informazione e la cultura è poco distante. «Dovunque andrai ci saranno i mujahedin a prendersi cura di te». Parte male l’incontro con il mawlawi Abdul Hai ‘Sabawoon’, già informato del nostro arrivo.

Il mawlawi Abdul Hai Sabawoon a Farah, foto di Giuliano Battiston

A Farah, spiega, dovremo essere seguiti nel nostro lavoro. «È per la tua sicurezza, per farti sentire più tranquillo». Obiettiamo: le persone parlano malvolentieri se vedono i Talebani; non sarebbero libere di esprimersi liberamente. Discutiamo a lungo. Poi il compromesso. «Staranno a distanza, senza essere visti. Ma loro guarderanno te, così da assicurarsi che non ti succeda niente». Ma allora l’Emirato non è così sicuro come dicono i Talebani?. «Ma no, c’è sicurezza ovunque. Ma qui a Farah di stranieri non se ne vedono, non si sa come reagisce la gente».

AVANTI COSÌ a lungo. Fino a quando non dirottiamo la discussione su altri temi. Il mawlawi prende confidenza, le risposte si fanno più articolate, appaiono i primi sorrisi. Ci mettiamo comodi, i cuscini sotto le braccia, mezzi stravaccati. Andiamo avanti per ore. Ne esce una piccola biografia personale, un vademecum su cosa significhi essere un talebano: «Noi non ci siamo uniti all’Emirato, noi siamo l’Emirato», puntualizza il mawlawi, che insiste: «Stanotte dormi qui». Ci ritroviamo per terra, sul pavimento di un ufficio. La mattina dopo arriva il tuttofare, ramazza alla mano. «Ora arrivano gli impiegati, devo pulire, alzati».