Come è noto Benito Mussolini affermò che «la cinematografia è l’arma più forte». Normalmente colleghiamo questo motto alla funzione propagandistica dei documentari prodotti dall’Istituto Luce, ente pubblico creato nel 1925 e posto alle dipendenze dirette del capo del Governo. Va però ricordato che l’interesse del fascismo per il mezzo cinematografico riguardò anche i film a soggetto, come è dimostrato dalle molteplici iniziative che, dagli anni Trenta in poi, lo Stato italiano mise in campo per sostenere e indirizzare il cinema di finzione. Su questo terreno il fascismo subì l’influenza sia dell’Unione Sovietica, dove Eisenstein e Pudovkin teorizzavano il valore educativo dell’arte cinematografica, sia della Germania hitleriana, presa a modello per quel che riguarda l’organizzazione governativa della propaganda e della produzione filmica. L’intervento del fascismo in campo cinematografico è stato oggetto di un documentato lavoro di ricerca di Alfonso Venturini, ora pubblicato da Carocci (La politica cinematografica del regime fascista, pp. 224, euro 23).

Il libro di Venturini, denso di contenuti ma al contempo di piacevole lettura, ci offre un contributo che travalica i confini della storia del cinema, abbracciando il campo della storia politica ed economica dell’Italia fascista. La produzione cinematografica, infatti, è osservata dall’autore sia come espressione artistica, sia come industria, nei suoi diversi aspetti economici e finanziari. Seguendo la vita di istituzioni e persone, inoltre, il libro tiene conto delle continuità che legano il cinema del Ventennio sia alla precedente età liberale, sia al successivo periodo repubblicano.
All’inizio degli anni Venti, il cinema italiano attraversava una crisi destinata ad aggravarsi nel corso del decennio. Fra le cause di questo declino vi erano sia il predominio dei film di origine straniera, sia la fragilità finanziaria e l’incapacità gestionale delle banche che controllavano la principale casa di produzione, l’Unione cinematografica italiana. Nei primi anni del fascismo questa crisi fu gestita essenzialmente dal mercato, mancando ancora un interesse dello Stato verso il settore cinematografico.

Gli interventi del regime fascista in materia risalgono solo ai primi anni Trenta, nella fase cruciale che coincise con il passaggio dal cinema muto a quello sonoro. Poiché la stragrande maggioranza dei film proiettati in Italia era di origine straniera, statunitense in particolare, uno dei primi problemi da risolvere fu quello della lingua. Nel 1933 una legge rese obbligatorio il doppiaggio, imponendo che esso fosse realizzato solo in stabilimenti italiani. Questa scelta impedì lo sviluppo del mercato dei film in lingua originale, con conseguenze che probabilmente si ripercuotono ancora oggi.

I provvedimenti più importanti del regime si concentrarono tra il 1933 e il 1935, in una fase in cui, in seguito agli effetti della crisi del ’29, la mano pubblica stava assumendo un ruolo sempre più ampio.
Alcune case di produzione, come molte altre aziende in crisi, finirono per essere acquisite dall’Iri, istituzione chiave dell’intervento pubblico in economia negli anni del fascismo e anche oltre. Sul fronte dei finanziamenti pubblici, si passò dalle erogazioni «a pioggia» a una politica di sovvenzioni più mirate, le quali da un lato contribuirono a risollevare temporaneamente le sorti del cinema italiano, dall’altro comportarono una più stretta aderenza delle opere filmiche ai criteri estetici e ideologici del regime.

Il governo tentò, inoltre, di difendere la produzione nazionale di film riservando a essa una quota obbligatoria nella programmazione delle sale. Seguendo soprattutto l’esempio della Germania nazista, nel 1934 venne creato il Sottosegretariato (poi Ministero) per la stampa e la propaganda, la cui guida fu affidata al genero di Mussolini, Galeazzo Ciano. All’interno del Sottosegretariato venne istituita la Direzione generale della cinematografia, alla cui testa fu posto Luigi Freddi.

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La Direzione era una struttura centralizzata in grado di esercitare un controllo capillare sulla produzione cinematografica, seguendone i vari passaggi, dall’ideazione alla concreta realizzazione. Durante la cosiddetta «era Freddi» (1934-1939) la censura sui film, già disciplinata da una vecchia legge del 1914, assunse una nuova valenza: non più un mero controllo a posteriori sul prodotto finito, ma un condizionamento preventivo sui film in fase di ideazione.
Coerentemente con l’indirizzo di Freddi, nel 1935 venne creato l’Ente nazionale italiano di cinematografia (Enic), un soggetto formalmente privato ma sostanzialmente statale, controllato dal Luce, la cui attività riguardò la distribuzione delle pellicole e la gestione delle sale cinematografiche. L’Enic non divenne mai un monopolista nel settore, ma operò sempre a fianco dei privati.

Per agevolare il finanziamento delle produzioni cinematografiche fu contemporaneamente istituita una sezione speciale presso la Banca nazionale del lavoro, già allora sostanzialmente una banca di Stato. Sempre nel 1935 lo Stato fascista istituì il Centro sperimentale di cinematografia e pose sotto il proprio controllo la Mostra del cinema di Venezia, nata nel 1932; nel 1936 fu inoltre avviata la costruzione di quello che sarebbe divenuto uno dei più grandi e moderni teatri di posa d’Europa, Cinecittà.

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Il ritratto della politica cinematografica del fascismo che emerge dal lavoro di Venturini è decisamente in chiaroscuro. Le iniziative del regime furono molteplici ma spesso prive di un disegno organico coerentemente perseguito. La profonda crisi in cui versava il cinema italiano negli anni Venti fu probabilmente frenata, ma l’insuccesso di alcuni fra i più ambiziosi progetti finanziati dallo Stato (primo fra tutti Scipione l’Africano, il kolossal del 1937 destinato a celebrare la conquista dell’Etiopia) rivelò i perduranti limiti dell’industria cinematografica italiana. L’ingente investimento statale nella costruzione di Cinecittà fu forse il lascito principale del fascismo, il quale pose così le basi per i fasti del cinema italiano negli anni del boom economico.

La commistione tra intervento pubblico e privato si rivela un tratto costante nella vicenda dell’industria cinematografica italiana, confermando l’importanza di quel modello di economia mista che, dopo avere mosso i primi passi durante il fascismo, avrebbe accompagnato la successiva espansione economica dell’Italia repubblicana.