Subito dopo la caduta di Hosni Mubarak, nel febbraio 2011, un giornalista europeo aveva chiesto senza riguardi all’allora presidente del Venezuela, Hugo Chávez (scomparso il 5 marzo di quest’anno), se non temesse di fare la stessa fine. Chávez, senza scomporsi, aveva ribadito che solo i popoli hanno il diritto di scegliersi i governi e che se proprio si voleva fare paragoni occorreva rifarsi al Caracazo: la ribellione popolare contro il carovita scoppiata contro il governo di Andrés Pérez nell’89. Quella contro Mubarak – aveva detto Chávez – era una «rivolta sociale» e come tale andava appoggiata: ma per affermare «il potere popolare» e una nuova costituzione, non per mettersi nelle mani dei militari (che poi avrebbero indetto le elezioni vinte da Morsi), i cui interessi e basi sociali, ormai ben lontane dalle speranze suscitate dal nasserismo, avrebbero portato il popolo lontano dai suoi obiettivi di emancipazione. Un parere competente quello dell’ex tenente colonnello Hugo Chávez Frias il quale, il 4 febbraio del ’92, aveva guidato non un golpe, ma una «ribellione civico-militare» alimentata dai rivoli di vecchie e nuove sinistre venezuelane, che lo avrebbero portato a vincere con ampio margine le elezioni del 1999 e a farla finita con la IV Repubblica.

L’attuale presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, aveva ripreso il ragionamento del suo predecessore per condannare la rimozione di Morsi, e aveva accusato l’opposizione interna di voler trascinare il paese in una situazione analoga a quella egiziana: «Nessuno può cancellare una Costituzione, solo il popolo può cambiare un presidente con il proprio voto», aveva detto il 4 luglio, durante una riunione con i movimenti sociali in Bolivia. Lì aveva invitato «i popoli del mondo e i movimenti sociali a non dormire sugli allori», e a vigilare sul proceso bolivariano: «Stiamo costruendo un mondo nuovo – aveva affermato -, stiamo lottando per un modello distinto, antimperialista e veramente democratico».

Dello stesso tenore il discorso con cui Maduro, durante una riunione pubblica al Teatro nazionale di Caracas, ha annunciato il ritiro dell’ambasciatore del Venezuela in Egitto. Una risposta alla «durissima repressione del governo “di fatto” contro i cittadini egiziani», ha detto l’ex autista di autobus, preannunciando che il suo paese, attraverso l’ambasciatore all’Onu, Samuel Moncada, presenterà una richiesta di discussione sulla crisi egiziana alle Nazioni unite: una iniziativa di mediazione appoggiata dai paesi dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per le Americhe ideata da Cuba e Venezuela e raggiunta da Ecuador, Bolivia, Nicaragua, Repubblica Dominicana, Saint Vincent e Grenadine, Antigua e Baruda.

«Il presidente Morsi deve tornare alla presidenza – ha affermato Maduro – e da lì può iniziare un nuovo processo di riconciliazione nazionale. Basta colpi di stato e divisioni». Una posizione che, tuttavia, non significa una cambiale in bianco per i Fratelli musulmani, i quali – ha sostenuto il presidente socialista – «stanno pagando caro l’errore di aver appoggiato la strategia del governo Usa nella regione». Dietro il colpo di stato contro Morsi così come dietro il «tentativo di smembrare la Siria», Maduro vede i piani di Stati uniti e Israele «per controllare il mondo arabo», e accusa la Nato di «promuovere il terrorismo nel mondo per poi giustificare la guerra al terrorismo».