A tener viva l’attenzione sulla vicenda Datagate, ieri ha pensato soprattutto Glenn Greenwald. Giornalista del britannico Guardian e blogger, Greenwald è una fonte di prima mano. È a lui che Edward Snowden, l’ex consulente Cia in fuga dal 23 giugno, ha consegnato circa 5.000 documenti compromettenti, sottratti all’Agenzia nazionale per la sicurezza Usa (Nsa): intercettazioni del programma Prism, con cui il governo nordamericano spiava illegalmente ogni tipo di comunicazione di paesi alleati e non. È molto probabile che l’ex contractor deciderà di andare in Venezuela, ha detto il giornalista: perché fra i paesi disposti a concedere asilo (Bolivia, Ecuador e Nicaragua), è quello «più sicuro, più forte, più ricco e con maggior peso a livello internazionale». Il problema – ha lasciato intendere Greenwald -, è principalmente quello della via di fuga.

Snowden ha iniziato la sua terza settimana al terminal dell’aeroporto moscovita di Sheremetievo. Non ha documenti e non vi sono voli diretti per il Venezuela, se non facendo scalo all’Avana. Caracas dovrebbe quindi garantirgli una via segreta e sicura. Perché difficilmente potrà bastare a Snowden l’aiuto della ong World Service Authority (Wsa), che gli ha fornito un passaporto mondiale. La Wsa è stata fondata nel 1954 e la validità del suo documento è riconosciuta da sei paesi: Ecuador, Burkina Faso, Tanzania, Mauritania, Togo e Zambia. Il passaporto «del cittadino del mondo» è scritto in inglese, francese, spagnolo, russo, arabo, cinese e esperanto. Ne ha avuto diritto anche Julian Assange, il fondatore di Wikileaks protagonista di una vicenda analoga. Questo, però, non gli ha consentito di abbandonare l’ambasciata ecuadoriana a Londra per recarsi a Quito, dove ha ricevuto asilo politico. 

Nicolas Maduro, presidente del Venezuela, ha confermato martedì di aver concesso ufficialmente «asilo umanitario» alla talpa del Datagate. E ieri, ignorando le proteste della destra venezuelana, il suo ministro degli Esteri, Elias Jaua, ha ribadito che la decisione resta ferma, nonostante le ripetute pressioni degli Usa. La «talpa», però, non si decide. Ieri ha fatto sapere di non aver ceduto nessun documento segreto ai paesi in cui è transitato (soprattutto Cina e Russia), né di voler collaborare con altri governi, ma ha detto di essere contento per come sta andando la discussione sul Datagate. Alexei Pushkov, il presidente della Commissione esteri della Duma gli ha chiesto comunque di sbrigarsi.

Tutta l’America latina ha intanto fatto blocco nel reagire con sdegno al «sequestro» del presidente boliviano Evo Morales. Il 2 luglio, di ritorno da Mosca, dove aveva espresso la sua disponibilità nei confronti di Snowden, Morales era stato obbligato ad atterrare a Vienna perché Francia, Spagna, Portogallo e Italia avevano negato il permesso di sorvolare il proprio spazio aereo, su richiesta degli Usa. Nonostante l’opposizione degli Stati uniti, anche l’Organizzazione degli stati americani (Osa) ha approvato una risoluzione di condanna verso i paesi europei e ha espresso solidarietà al presidente boliviano per l’affronto.

Martedì, Greenwald ha rivelato l’esistenza di 5 basi segrete (con 007 annessi) dalle quali gli Usa hanno spiato tutta l’America latina: in Brasile, Venezuela, Colombia, Panama e Messico. Notizie che hanno provocato altre scosse diplomatiche tra gli Stati uniti e il suo ex «cortile di casa». Dopo il Brasile, si è fatto sentire persino Manuel Santos, presidente della Colombia, paese ben poco incline ad alzare la testa con il grande alleato nordamericano. E anche il Cile «sta verificando» le notizie. «Risponderemo per via diplomatica», ha ribattuto l’ambasciatore statunitense in Colombia, Peter Michael McKinley.