L’ambiguità rende un personaggio interessante dice Barbet Schroeder, autore che ha sempre poco circolato in Italia eppure questo grande regista apolide, svizzero, francese, nato a Teheran nel 1941 è uno di quegli sguardi che grazie a questa ambiguità riesce a scomporre e a ricomporre l’immaginario e la realtà in puzzle mai docili, imprevedibili, nei quali il tempo e il racconto assumono infiniti riflessi – dal Sessantotto con la colonna sonora dei Pink Floyd in More sulla sua Ibiza dove ritorna nel recente Amnesia (2015).

«IL VENERABILE W» è il terzo capitolo della «Trilogia del male» insieme al film sul dittatore dell’Uganda, Imir Ami Dada (74) e all’Avvocato del Terrore (2007), ovvero Jacques Vergèr difensore tra gli altri di Pol Pot, con cui il Venerabile W. condivide una certa attitudine a riscrivere la storia per farsene il motore e il protagonista. Tutte queste figure «malefiche», assai distanti da una visione manichea del mondo – griglia semplice per leggerne gli eventi, basta schierarsi tra buoni e cattivi – interrogano la realtà oltre il presente, oltre la contingenza che la determina illuminando i legami tra passato e presente, quanto c’è sempre stato e dunque è facile da manipolare, le contraddizioni, le bugie.

W. che sta per Wirathu è un monaco buddista birmano, la faccia tonda, serafica, come un’icona del Budda senza età – è del ’68 – che coi suoi sermoni da anni incita i suoi seguaci all’odio etnico per mezzo della religione contro la comunità musulmana in Birmania. «I musulmani sono come il pesce gatto africano, una specie violenta che divora tutte le altre» spiega aggiungendo che per questo ai suoi allievi insegna sin da piccoli a individuare con chiarezza chi è il nemico e a capire quanto sia pericoloso.

SIMPATIZZANTE buddista in passato Schroeder affronta il suo interlocutore/personaggio, responsabile di massacri e di distruzioni di interi villaggi senza rinchiuderlo in un giudizio preconcetto, lascia che si definisca da sé, lo «scomunica» con voci dissonanti e contraddittorie – altri monaci, l’inviata delle Nazioni Unite che il Venerabile definisce «una puttana» – e permette così allo spettatore di costruirsi una propria visione etica e politica. Nella dottrina di W. attivissimo sui social media i musulmani sono «kalars» (termine dispregiativo tipo «negro»), stuprano le donne birmane, sono una minaccia per l’integrità della razza, minano la religione buddista comprando col sesso e coi soldi le donne costrette poi a convertirsi, sono invasori, nemici.

Nel 2003 Wirathu viene arrestato con l’accusa di essere il promotore di violenti attacchi contro i musulmani con incendi di abitazioni e insediamenti Rohingya che causano la morte di 200mila persone. Ma otto anni dopo, nel 2012, è già libero e intanto si vanta di essere l’ispiratore della «Rivoluzione Zafferano» dei monaci contro la giunta militare birmana. Intanto ha ripreso le sue attività, protetto dall’allora presidente-dittatore Thein Sein,, col movimento 969 (il gruppo oggi si chiama Ma Ba Tha) che predica la purezza della razza, il divieto di matrimoni misti, il boicottaggio dei commerci musulmani, la proibizione di vendere case o beni ai musulmani.

W. nega ogni responsabilità nei continui scontri che oppongono le due comunità di fronte ai quali i militari non intervengono… Cacciare i Rohingya, scopriamo da un documento del 1978 era già allora una priorità, per W. non esistono, sono un fake utilizzato per nascondersi dai bengalesi e chiunque li aiuti andrebbe considerato in traditore. Ma quel repertorio ci dice che allora i Rohingya fuggivano verso il Bangladesh povero perché torturati e stuprati dall’esercito birmano proprio come accade oggi con Aung Sang Suu Kyi.

PIÙ CHE il ritratto del «Venerabile» – e delle folle di monaci e buddisti sanguinari all’opposto della visione comune di pace e non-violenza – l’investigazione precisa e dettagliata di Schroeder compone una riflessione che va al di là del personaggio stesso. E nel processo storico attraverso il quale la giunta militare birmana ha utilizzato le tendenze nazionaliste e islamofobe di una parte del clero buddista rivela quel meccanismo universale che fonda l’esclusione, la negazione dell’altro, il crimine collettivo. La storia è qui, tra le contraddizioni e nei conflitti, chiara, evidente, senza alibi.