È stato detto e scritto con solennità che la televisione generalista è stata nuovamente la protagonista assoluta del red carpet mediatico dell’ultima campagna elettorale. Sarà, ma simile certezza è messa in discussione da due elementi rilevanti.

Innanzitutto, proprio la televisione si è rivelata – negli atteggiamenti dominanti – piuttosto distante dal nuovo senso comune, essendo stati chiaramente sospinti nel flusso delle notizie Partito democratico insieme al governo e Forza Italia ben al di là della forza effettiva. A fare da polarità dialettica negativa è stato scelto il Mov5Stelle, tanto abbondante nel tempo di notizia quanto citato in modo critico o sarcastico.

Insomma, Rai e Mediaset hanno votato per un rinnovato «Patto del Nazareno» e hanno perso. Un incrocio tra i dati forniti dall’Osservatorio di Pavia (per la commissione parlamentare di vigilanza) e quelli di Geca Italia (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) ci fornisce un complesso di indicazioni, a cominciare dalla sottovalutazione pesante della Lega e dalla cancellazione di una lista come Potere al popolo. Altro che par condicio. La legge 28 del 2000 è stata rivista di fatto, fuori da ogni procedura democratica. Infatti, le pari opportunità tra i diversi soggetti in campo – che nell’ultimo mese prima del voto dovrebbero essere rigorose ed egualitarie – hanno riguardato prioritariamente le forze ritenute importanti.

La par condicio ha categorie differenti, a seconda del peso post-voto supposto o desiderato. Pure Liberi e Uguali ha sofferto l’emarginazione, come si evince dal puntuale monitoraggio svolto da un gruppo di ricerca del dipartimento di comunicazione e ricerca sociale della Sapienza di Roma diretto da Christian Ruggiero.

I successi di Di Maio e Salvini ci fanno capire come la vecchia televisione sia inguaribilmente conservatrice e troppo abituata a ruotare attorno al potere politico conosciuto. Raramente (qualche eccezione nel servizio pubblico e La7) si coglie il coraggio rabdomantico di leggere la realtà sotto la superficie dei segni, offrendo agli utenti-cittadini una lente di ingrandimento. E poi arriva il voto vero a smentire. Chissà ora che accadrà, perché il “duopolio” starà certamente stretto ai due vincenti, per motivi forse opposti.

Un’altra osservazione è d’obbligo. Al di là dei minuti concessi ai contendenti (calcolati a prescindere dal rapporto con l’ascolto effettivo, come invece conduceva le rilevazioni il Centro d’ascolto radicale, di cui abbiamo nostalgia) è essenziale guardare all’agenda delle priorità artificiosamente imposta. E, allora, si capisce che la campagna elettorale nei media classici conta fino a un certo punto. Infatti, se si scruta l’andamento della e nella rete prima della campagna elettorale canonica, si coglie il vento che tira.

Migranti e xenofobia, odio razziale e urla pauperiste, riabilitazioni dei fascismi e richiami all’odio sono stati componenti forti e pervasive. Naturalmente, va osservata la crescente quota dark dedicata selettivamente ai profili immagazzinati negli abnormi archivi digitali posseduti dagli Over The Top. A cominciare da Facebook. Il clima di opinione costruito con il contributo essenziale delle ciniche sequenze degli algoritmi è ben più rilevante della prevedibile grancassa del piccolo schermo.

La televisione generalista conta ancora molto nella rassicurazione propagandistica dei bacini elettorali già convinti, piuttosto che nell’espansione creativa e dinamica delle aree di consenso. La “terza repubblica” dei media è cominciata.