Rosario Livatino, il magistrato ucciso trent’anni fa dalla mafia agrigentina (la Stidda), verrà beatificato dalla Chiesa cattolica.
Il decreto, autorizzato da papa Francesco, è stato promulgato lunedì scorso dalla Congregazione delle cause dei santi e reso pubblico ieri dalla sala stampa vaticana. In esso si proclama il «martirio» di Livatino, «ucciso in odio alla fede sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento, il 21 settembre 1990». La cerimonia di beatificazione dovrebbe svolgersi nella primavera del 2021, probabilmente ad Agrigento.

La prova del martirio «in odium fidei» – la formula canonica utilizzata dalla Chiesa –, secondo alcune fonti ecclesiastiche, è arrivata grazie alle dichiarazioni rese da uno dei quattro mandanti dell’omicidio, il quale, durante la seconda fase del processo di beatificazione, ha testimoniato che chi ordinò quel delitto sapeva quanto Livatino fosse retto, giusto e di fede profonda, che proprio per questo motivo non poteva essere un interlocutore della criminalità e quindi andava eliminato.

Si tratta però di una formula piuttosto problematica, soprattutto se si tratta dell’assassinio mafioso di un giudice sì credente, ma ucciso a causa della sua azione di magistrato di uno Stato laico.

«Livatino è un magistrato che viene ucciso non perché ha dato testimonianza di fede, ma perché non si è piegato ai voleri mafiosi e dunque si è esposto alla vendetta mafiosa», spiega al manifesto Alessandra Dino, docente di sociologia giuridica e della devianza presso l’università di Palermo, studiosa dei rapporti fra Chiesa cattolica e mafie e negli ultimi anni impegnata sul tema della violenza di genere (in uscita, a breve, «Femminicidi a processo», edito da Meltemi).

Si tratta della stessa motivazione, «in odio alla fede», utilizzata anche per il riconoscimento del martirio di don Puglisi, ma si tratta di due casi molto diversi fra loro…
«Don Puglisi era un prete e io sono d’accordo con chi dice che non è stato ucciso in odio alla fede ma in odio al Vangelo. Il problema non era tanto la fede, ma la sua testimonianza e il suo impegno nella costruzione sul territorio di un modello che creava alternative alla mafia. Ma appunto, Pino Puglisi era un prete e la sua beatificazione ha una sua coerenza, sebbene ci sia il rischio di trasformare in un’eccezione quello che dovrebbe un comportamento comune di tutti i parroci».

Nel caso di Livatino invece?
«La questione mi pare più complessa. Il dato positivo e interessante è che papa Francesco parla di Livatino come di un esempio per tutti coloro che operano nel campo del diritto. Dopo tanto tempo in cui la Chiesa ha distinto giustizia divina e giustizia terrena, assecondando involontariamente alcune interpretazioni dei mafiosi di essere più vicini alla giustizia di Dio che alla giustizia dello Stato, il fatto che ora si beatifichi un magistrato come Livatino è un gesto di apertura alla dimensione del diritto e può essere il segno della volontà di indicare due livelli che devono agire in parallelo. Una scelta che in un certo senso sottolinea la laicità».

Ma ci può essere anche un’altra lettura?
«Il rischio è di incapsulare la figura di Livatino all’interno di una dimensione a metà strada fra il prete e il magistrato, confondendone la sua vera identità. Che Livatino abbia avuto una fede profonda è un elemento aggiuntivo. Ma egli era prima di tutto un magistrato che operava secondo le regole del diritto. Bisogna stare attenti a non annullare i confini, in direzione di una giustizia confessionale».