Siamo isole che navigano nell’oceano, dice a un certo punto Pippo Delbono. Nel suo viaggio per acque non sempre chiare, l’attore ha incontrato un gruppo di persone raccolte in uno stesso luogo. Un’altra isola galleggiante. Rifugiati, secondo il linguaggio corrente. Individui, in realtà. L’uno diverso dall’altro e non solo per il colore della pelle. Africani, mediorientali, afgani. Rinchiusi in una struttura di accoglienza nei pressi di Asti, in attesa di conoscere se la loro richiesta d’asilo verrà accolta. Destinati altrimenti a ingrossare il numero dei clandestini. Ce ne rendiamo conto, di questa loro diversità, nel momento in cui la cinepresa si sofferma sui loro volti. E su quei volti è costretto a soffermarsi il nostro sguardo, così distratto d’abitudine quando li vede per strada.

Da questo incontro è nato Vangelo, il film che Delbono ha presentato alle Giornate degli Autori a Venezia. Che si inserisce evidentemente all’interno del progetto da cui l’inverno scorso è nata l’ «opera contemporanea» che porta il medesimo titolo. Uguale è anche il punto di partenza del film e del lavoro teatrale. La morte della madre, che negli ultimi giorni gli aveva chiesto di «fare qualcosa sul Vangelo», perché c’è tanto bisogno di un messaggio d’amore. La ribellione ormai pacata che gli fa dire, quasi sottovoce, io non credo in dio, non credo in questo dio dei martiri, dei suicidi, della menzogna. La malattia che per qualche tempo gli ha fatto vedere tutto doppio, tanto da non distinguere più il bello dal brutto, il santo dal colpevole – lo vediamo mentre si aggira per l’ospedale in cui è ricoverato.

All’uscita da questa letterale «selva oscura» c’è l’incontro liberatorio con questi uomini che hanno lasciato tutto dietro di sé. A cui chiede aiuto, più che volerne dare, da rifugiato fra i rifugiati, come già gli era capitato una ventina di anni fa, su un altro crinale della propria esperienza umana e artistica, con i «barboni» che avrebbero dato anche una nuova direzione al suo lavoro teatrale. Un’umanità che aveva sperimentato l’ospedale psichiatrico, la vita randagia, la disabilità fisica. Artaudianamente, tutta la poesia di Delbono proviene da un dolore. La morte dell’amico degli anni giovanili. La scoperta della malattia, l’Hiv, che l’obbliga a convivere con l’idea della propria morte. Lo sprofondare in una ancora più feroce oscurità della mente. Ma il dolore di cui ci dice, l’elemento biografico che dà innesco a tutte le sue creazioni, per trascinarvi dentro lo spettatore, non resta mai un fatto individuale, si confronta sempre con il dolore dell’altro. L’esilio di Pepe Robledo, il compagno della prima ora, o la rabbia del ragazzo di Sarajevo che può urlargli: di quello che ho visto io, tu non hai visto niente…
A questo punto però lo sguardo del film si divarica dal lavoro teatrale. E non è solo in gioco l’ovvia diversità dei due linguaggi. Non per caso qualche immagine dello spettacolo attraversa, come un bagliore o l’aprirsi di uno strappo, il fluire delle immagini cinematografiche. Ma per marcare appunto una lontananza da quel mondo che ora gli appare forse borghese, un «Vangelo dei ricchi» segnato da un vuoto d’amore. Come se l’incontro con quegli uomini gli avesse permesso di fare ciò che il teatro aveva soltanto accennato, il Vangelo che voleva sua madre. O forse meglio: il compimento di una possibilità che proprio il teatro aveva rivelato. Non per caso, ancora, quel letto vuoto nella casa di famiglia che compare fra le prime immagini del film si rispecchia poco dopo nel letto sfatto che occupa il disordine che rende vitale quel luogo altrimenti di un grigiore carcerario.
L’orizzonte di questi uomini è quello stesso del film. Non vi troviamo la commistione di materiali incongruenti che spezzano la continuità della costruzione drammaturgica, secondo una strategia che lo spettatore del teatro di Delbono ha imparato a riconoscere. Ed è un orizzonte corale e compatto, che non perde mai di vista le storie che ci raccontano con le parole, su una barchetta che ondeggia in un crepuscolare mare ligure, o con la loro sola immobile presenza. Senza tuttavia cadere nella trappola di una lettura contenutistica, estranea del resto a tutte le creazioni di Delbono. Vangelo non è un documentario, e non è nemmeno politicamente corretto, nemmeno il Vangelo è buono, ci dice l’artista. Il film è piuttosto il racconto della difficoltà di mettere in contatto i due mondi, il loro e quello del «regista». Forse della sua impossibilità. Lo dicono i corpi, sempre così centrali. Corpi che (invano) lui cerca di vestire. Se si ha in mente l’empatia fisica che in un altro film, Grido, si creava fra lui e Bobò in giro per l’eterna Napoli, si comprende quanto sia diversa questa esperienza. Noi ci fidiamo di te, gli dicono. Ma devono appunto dirlo con le parole.
Ciò che rende unico fin qui il lavoro di Delbono è il suo essere sempre in qualche misura intempestivo. Il suo stare su un margine, allo stesso tempo dentro e fuori, che gli consente di mettere tra sé e le cose una distanza. La distanza che Vangelo cerca di forzare. Che questo non avvenga così facilmente rende il film ancora più struggente.