Le immagini e le sonorità che abbiamo vissuto nel periodo d’isolamento, quel vuoto delle strade, delle piazze, persino di quella di san Pietro durante la preghiera Urbi et orbi di papa Francesco, ci hanno reso manifesta la fragilità del mondo, in quei giorni disabitato e preda di un’idea apocalittica che pensavamo appartenesse solo a passate mitologie.
Vito Teti, già dal principio del suo volume, Prevedere l’imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di coronavirus (Donzelli, pp. 112, euro 15 euro; kindle 8.99) invita a riflettere su concetti come catastrofe o apocalisse, magari in slow motion, perché nel tempo costruite e provocate dai nostri irrazionali comportamenti, dalle nostre deterioranti azioni quotidiane.

L’ANTROPOLOGO OSSERVA e riflette sullo scenario italiano partendo da un punto di vista quasi intimo e familiare – «le storie che mi raccontavano nonna e mamma» – che si apre però all’osservazione dei cambiamenti culturali avvenuti nella storia recente del Paese. Mutamenti che implicano necessariamente un prima e un dopo, dove il prima, ciò che chiamiamo passato, possa essere risorsa per ottenere modelli alternativi di futuro.

La stessa nostalgia – spesso indagata nei lavori di Teti – deve essere stimolo «capace di sprigionare, a certe condizioni, dinamiche autenticamente innovative, rivoluzionarie, ’sovversive’». Una nostalgia raccontata dai miti e agita nei riti del Sud con quelle sfumature color seppia delle vecchie fotografie e che ancora parlano di terribili catastrofi miracolosamente risolte da eroici portatori di santità.

ALLA PROVOCATORIA domanda del III capitolo, Fine del futuro?, Teti offre varie riflessioni su quella diffusa sensazione di una Storia che sia ormai inalterabile e vicina al suo termine, come un fenomeno «su cui impossibile e inutile avere la pretesa di intervenire», come se l’apocalisse fosse già presente sotto forma di liquidazione di ogni civiltà. Ma il problema posto dalla Storia – scrive l’autore citando Baudrillard – «non è che essa avrà fine», ma che «non avrà finalità, scopo, telos».
Si potrà allora Prevedere l’imprevedibile in tanti modi, anche penetrando il senso profondo della cultura subalterna: dietro al culto di san Giorgio uccisore del drago, simbolo di paludi, miasmi, morbi pestiferi, non troviamo forse l’accorto ammonimento di porre cura e attenzione al proprio territorio?
I santi vincono sugli animali, certo, ma ragionevolmente la loro vittoria non è mai definitiva, come in modo implicito raccontano i ciclici rituali che rivivificano storie prototipiche sempre nelle stesse date.
Prevedere l’imprevedibile non significa quindi guardare solo al futuro, ma anche comprendere le culture del passato, incluso il simbolismo di un animale come il pipistrello, oggetto dell’appendice che conclude il volume (Il pipistrello, il virus e il vampiro).

LA SUA STORIA, la costante demonizzazione che ancor oggi sembra trovare giustificazione in quella ricerca di un animale-serbatoio del coronavirus, ne fanno un caso di studio molto interessante e fecondo. Possiamo continuare a vederlo come un capro espiatorio o come un alleato nella ricerca scientifica: al solito sta a noi, alla nostra intelligenza, scegliere.