Penso che la danza non sia principalmente una forma di arte visiva: ha a che fare anche con gli altri sensi e con il loro modo di funzionare insieme. Vedere, ascoltare, avere sensazioni, ma anche ricordare, immaginare e pensare. Penso alla coreografia come a una scrittura, il che non significa che debba essere linguaggio, ma neanche l’opposto del linguaggio. Nella performance a cui sto lavorando in questo periodo (oslo), cerco di fare il meno possibile in scena. Non perché sia pigra o stanca e non per provocare. Non si tratta della mia assenza o di non fare, ma di qualcosa di diverso dalla mia presenza e da ciò che sto facendo. Questo qualcos’altro è per me ciò che costituisce una performance. Cosa è questa nozione più ampia di scrittura? Qual’è lo spazio della lettura? Mi interessa questo spazio dell’immaginazione e come accedervi, in che modo lo condividiamo, ciò che è presente (anche se invisibile), ciò che facciamo, ciò che possiamo fare, come stiamo lì, ciò che possiamo nominare e ciò che non possiamo nominare pur essendoci comunque.

Ho lavorato con il linguaggio in una serie di performance in cui sono sola in un spazio vuoto. Tuttavia non penso a questi lavori come a dei soli. Ci sono delle aspettative legate alla forma del solo che mi fanno sentire a disagio. Non voglio rimuovere il performer dalla scena per realizzare un pezzo privo di esecutore. Voglio piuttosto mettere in discussione il performer come ciò che accentra l’attenzione, colui che è al centro e che inevitabilmente guardiamo, come figura che media l’esperienza del pubblico. Non voglio dissolvere la posizione del pubblico o fare lavori partecipativi in cui è lo spettatore a svolgere il lavoro. Penso che l’esperienza collettiva in cui possiamo sparire nell’anonimato, nel buio o meno, sia importante. Quando sono spettatore, l’esperienza è mia ed è singolare, ma allo stesso tempo faccio parte di un collettivo, che è ciò che rende possibile questo tipo di esperienza. Ma cosa possiamo condividere senza volere qualcosa gli uni dagli altri? Come può un’esperienza essere coinvolgente e generativa preservando l’autonomia dell’altro, i suoi interessi? Come possiamo essere in prossimità l’uno con l’altro e allo stesso tempo riconoscere le infinite distanze che esistono tra noi? Non riempiamo mai questo vuoto.

Ma perché non starei danzando? Cosa significa – voglio dire – che non danzo o che quello che faccio potrebbe essere o non essere considerato danza? In Time has fallen asleep in the afternoon sunshine, quando sono seduta o cammino in una biblioteca recitando un libro a memoria per un lettore (il mio pubblico di quel momento), non insisto sul fatto che si tratti di danza. Ma non è neanche teatro. Sono un libro in quel momento (cosa significa?). Imparare libri a memoria è paragonabile a imparare sequenze di danza e movimenti, ed è stato interessante scoprirlo e rifletterci. Imparare prosa o poesia a memoria, come imparare una danza, non è limitarsi ad acquisire contenuti o informazioni. Quando ho iniziato a realizzare i miei lavori, era importante insistere e restare all’interno del campo della danza e della coreografia. Ma c’era un’infatuazione per le arti visive, e quello che stavo facendo sembrava arte visiva. Manovravo oggetti nello spazio, lavorando sulla prospettiva, su dettagli, colori e azioni semplici. Certo, potevo presentare i miei lavori in gallerie o musei, e l’ho fatto. Ma per me non era importante far assorbire il mio lavoro nel sistema delle arti visive, quanto ampliare piuttosto la nozione di ciò che la danza potrebbe essere. C’è stato un ritorno al linguaggio nelle pratiche estetiche negli ultimi anni, e anche nelle pratiche della danza e della coreografia; il linguaggio, il testo e la scrittura si sono sviluppati in varie forme all’interno della nostra forma d’arte. Ma ancora una volta, questo interesse per il testo e la scrittura non è uno spostamento verso un’altra disciplina o forma d’arte (teatro, letteratura), ma rimane all’interno del campo e della pratica della danza e della coreografia. Cos’è il testo? Dove accade il testo? Qual’è questa nozione della scrittura e come si relaziona con il corpo nel tempo e nello spazio?

L’altro giorno ho detto ad un tecnico del teatro in cui stavo lavorando, che sarei davvero curiosa di trovarmi, prima o poi, a finire un pezzo in anticipo, diciamo due settimane prima del debutto. Ho continuato precisando che non era il caso del pezzo su cui stavo lavorando in quel momento, ovviamente, per rassicurarlo. Lui ha confermato che in effetti è positivo che rimanesse ancora del lavoro da fare. Ma aspetta un momento: perché sarebbe negativo? Un pezzo non è mai finito. Neanche uno scritto. Come questo testo: non sarà mai finito. E’ arrogante affermare che un pezzo è pronto, dire che è buono a questo punto, due settimane prima del debutto, poi! Non solleverebbe dei sospetti? Sarebbe veramente una cosa buona? Voglio dire, la fine … e la parte nel mezzo erano un po’… e le transizioni non sono veramente scorrevoli. No, se il mio pezzo sarà pronto due settimane prima del debutto, dovrò tacere, fingere di lavorare.

Il motivo principale per cui non voglio avere un cane è che non ho tempo per portarlo fuori. Ma non voglio usare questa scusa della mancanza di tempo. Il tempo passa, cos’altro può fare? Penso che ci sia qualcos’altro da capire, qualcosa in me che deve cambiare (o il mondo intorno). Quando ho iniziato con Les Ballets C. de la B. nei miei primi anni di danzatrice, il lavoro di preparazione poteva durare dai sei agli otto mesi. Chi avrebbe tutto questo tempo oggi? Sarebbe impossibile ora immaginare periodi di prove così lunghi. Comunque avere più tempo non garantisce un lavoro migliore, naturalmente. Non c’è una qualità intrinseca nel tempo. Dico questo a proposito di come valutiamo il tempo per la creazione, e che valore gli diamo, perché oggi sembra che gli unici luoghi in cui ci siano ancora dei momenti che non sono strumentali alla produzione, sono quelli che troviamo all’interno della ricerca artistica e delle istituzioni educative. Prendiamoci cura di questi varchi. Il momento è così importante nelle arti performative, eppure passiamo così tanto tempo a prepararlo. Ma non è un tempo normato. C’è sempre un limite al miglioramento. A volte è bene sapere quando fermarsi.

Il testo originale inglese è stato pubblicato in Post-dance (a cura di Danjel Anderson, Mårten Spångberg, Mette Edvardsen, 2017).

NOTA BIOGRAFICA

Mette Edvardsen, artista norvegese, vive e lavora fra Bruxelles e Oslo. Lavora nel campo delle performing arts come coreografa e performer, il suo interesse ruota intorno alle arti performative intese come pratica e contesto. Dal 2002 ha cominciato un percorso autoriale autonomo, presentando le sue performance nel panorama internazionale. Tra le produzioni, oltre la trilogia sui limiti del linguaggio Black (2011), No Title (2014) e We to be (2015), spicca Time has fallen asleep in the afternoon sunshine (2010>2018) basato sulla pratica di memorizzazione di testi. Il processo, tuttora in corso, è stato presentato in 28 città di tutto il mondo (da contesti quali la Biennale di Sidney al Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles), assistendo alla nascita di una comunità di 68 libri viventi in dodici lingue. È ricercatrice presso la Oslo Arts Academy. «oslo» è il titolo e anagramma d suoultimo solo. Esploratrice delle pratiche performative, si contraddistingue per la ricerca sul linguaggio e le sue caratteristiche topologiche, tra presenza e assenza, evocazione e ricordo. Con «oslo» espande il concetto di solo nell’intero spazio scenico, in una proliferazione di voci, azioni e momenti. metteedvardsen.be;
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