Lo scorso 5 novembre gli All Blacks hanno fatto tappa a Chicago prima del loro tour europeo per sfidare l’Irlanda.

Al Soldier Field, 62 mila posti, dove solitamente sono in scena i Bears (football americano), quel giorno c’era il tutto esaurito. Un mese prima il Twickenham di Londra aveva in programma Argentina-Australia valida per l’International Championship, il torneo dell’emisfero Sud: 50mila spettatori, cifra di tutto rispetto per quello che è considerato il tempio del rugby.

Nel triennio 2008- 2010 i match della Bledisloe Cup, antico torneo in palio tra le nazionali di Australia e Nuova Zelanda, si sono disputati per due volte a Hong Kong e una volta a Tokio, e sempre con buona soddisfazione per le casse.

«Dove va il rugby?», la domanda che circola tra gli addetti ai lavori, trova nei fatti una risposta più che ovvia: il rugby va dove ci sono i soldi.

Si sondano nuovi potenziali mercati (i prossimi mondiali si disputeranno tra due anni e mezzo in Giappone), si valuta la risposta dei consumatori, si soppesano domanda e offerta, costi e ricavi, e alla fine si decide dove portare il gioco.

Ciò che vale per il calcio, per il basket, per qualsiasi disciplina in grado di attirare investimenti e pubblico, vale dunque anche per il mondo ovale. Un giorno, forse, vedremo la William Webb Ellis Cup sbarcare a Doha o a Dubai, e a decidere se ne vale la pena sarà unicamente il rapporto tra costi e benefici, non il radicamento del rugby nel deserto della penisola arabica.

Il rugby ha sempre dimostrato di dare valore alle proprie storie e tradizioni, e su questo ha costruito il mito della sua diversità, un’eccezione che ha coltivato e difeso finché è stato possibile. È ancora così?

In parte lo è, ma da tempo si odono preoccupanti scricchiolii.

Il Sei Nazioni, che prende il via in questo weekend e che è giunto alla diciottesima edizione, appartiene alla migliore tradizione della palla ovale.

Sono centotrentatre anni di storia del rugby quelli che vanno in scena da qui a metà marzo perché il torneo a squadre più antico del mondo nacque nel 1883 come Home Nations Championship, allora riservato a Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda, le quattro home unions, per poi diventare Cinque Nazioni a partire dal 1910 con l’ingresso della Francia.

Tutto il resto, Coppa del mondo e Tri Nations, è venuto dopo, molto dopo. E se nel corso degli anni le regole del gioco sono state periodicamente modificate, vuoi per tutelare la salute dei giocatori, vuoi per favorire la spettacolarità delle partite (non sempre con risultati soddisfacenti), per il resto il torneo è sempre stato fedele a se stesso.

Da quest’anno si è però deciso di introdurre il sistema dei punti di bonus già in vigore negli altri tornei internazionali: non più 2 punti per la vittoria, uno per il pareggio e zero per la sconfitta, meccanismo che ha sempre funzionato benissimo, ma 4 punti per chi vince, 2 per chi pareggia, zero per chi perde; e in più le seguenti varianti: 1 punto addizionale se si segnano almeno 4 mete o se si perde con meno di 8 punti di scarto, e 3 punti in più per chi realizza il Grande Slam. Un sistema barocco di cui non si avvertiva la necessità.

La scorsa edizione è stata vinta dall’Inghilterra che ha anche realizzato il Grande Slam vincendo tutte e cinque le sfide in programma. L’Italia ha chiuso a zero punti: whitewash (solo sconfitte) e cucchiaio di legno (ultimo posto) in una botta sola. Era l’ultima, tribolata stagione con Jacques Brunel sulla panchina azzurra.

L’arrivo dell’irlandese Conor O’Shea alla guida della nazionale sembra aver dato buoni risultati: nei test di novembre l’Italia ha compiuto la mirabile impresa di battere il Sudafrica a Firenze, un risultato che ha sorpreso l’intero mondo del rugby.

L’obbiettivo per questo Sei Nazioni è di riuscire a vincere almeno un match e di confermare i progressi fin qui dimostrati. Gli azzurri hanno a disposizione tre partite da giocare in casa: il Galles domani, l’Irlanda sabato prossimo, la Francia l’11 marzo. In trasferta le sfide con Inghilterra e Scozia.

I pronostici sono a favore degli inglesi che sotto la guida di Eddie Jones hanno vinto tutte le partite del 2016: 13 successi consecutivi, compresi quattro match contro l’Australia e uno contro gli Springboks che valgono il secondo posto nelle classifiche internazionali, piazzamento che per ora nessuno è in grado di mettere in discussione (più su ci sono solo gli inarrivabili All Blacks, che però da quattro anni non giocano contro il XV della Rosa).

Appena sotto c’è l’Irlanda, anch’essa reduce da una mirabile annata che ha visto i ramarroni sconfiggere tutte e tre le grandi dell’emisfero Sud, impresa che nessun’altra squadra è mai riuscita a compiere.

Più sotto ancora il Galles e la Scozia: i dragoni sono sempre una formazione capace di formidabili prestazioni e risultati sorprendenti, ma per molti di loro l’età e l’usura cominciano a farsi sentire; la Scozia continua a crescere e salvo sorprese dovrebbe riuscire a chiudere tra il terzo e il quarto posto.

La Francia, infine, è alle prese con una periodo di transizione che sembra non finire più: dal 2011, anno della finale mondiale di Auckland, i coqs non sono mai riusciti ad andare oltre il terzo posto nel torneo.