Non sembrano essere in molti, in questi giorni, a rendersi conto che l’Italia è tornata, come nel marzo scorso, il paese in cui la pandemia miete più vittime. Eppure i dati epidemiologici sono eloquenti: per numero dei contagi abbiamo raggiunto l’ottavo posto, ma l’indice di letalità è secondo solo a Messico e Iran e in linea con Gran Bretagna e Perù. Persino Stati Uniti e Brasile sembrano star meglio di noi. Se poi guardiamo al numero dei decessi giornalieri, siamo tornati in cima alla lista e il presidente dei medici del Fnomceo ha denunciato la morte di altri 27 medici in 10 giorni, e parlato di «strage degli innocenti».

Eppure, nel nostro paese si fa a gara nell’interpretare ottimisticamente i primi rallentamenti della curva dei contagi; ci si schiera in modo sempre più critico nei confronti delle strategie di contenimento decise dal governo; si cerca di convincere tutti che la svolta è dietro l’angolo, grazie a vaccini dichiarati in tempi record efficaci e sicuri, mediante comunicati stampa, dalle stesse multinazionali che li producono; si attacca chi si permette di avanzare dubbi non sull’importanza dei vaccini, ma sulle modalità della comunicazione e sull’eccessiva fretta con cui si è proceduto, per la prima volta nella storia, nel percorso di sperimentazione. Eppure, sono le principali testate scientifiche del mondo e in particolare The Lancet a sottolineare come sia legittimo sperare nei risultati così trionfalmente annunciati, ma che alcuni nodi dovrebbero essere sciolti prima di gridar vittoria.

 

Non è ancora certo, infatti, se questi vaccini impediscano la trasmissione del virus o si limitino a proteggere da forme gravi i vaccinati: un risultato importante, che però non faciliterebbe il raggiungimento dell’«immunità di gregge». Non sappiamo quanto duri l’immunità conferita da questo virus: quello che sappiamo deriva dalle nostre conoscenze su Sars e Mers e da studi che dimostrano la presenza di anticorpi neutralizzanti nei guariti.

Ed è evidente che se l’immunità indotta dal «virus da strada» non è particolarmente robusta, né duratura, difficilmente un vaccino composto da frammenti del genoma o da proteine antigeniche virali farà meglio. Poi ci sono i casi di reinfezione che sembrerebbero attestare limiti nell’immunitaria adattativa e l’incerta efficacia negli anziani, i soggetti più a rischio.

Alcuni sottolineano che la pandemia è ancora in fase iniziale e che il virus continuerà a mutare per adattarsi alla nostra specie e difendersi dal nostro sistema immunocompetente, come accade a tutti i virus a Rna emersi da poco dal loro serbatoio animale: per cui è in teoria possibile che un vaccino oggi efficace, lo sia meno tra sei mesi o un anno.

Ci sono poi i problemi di disponibilità dei vaccini a livello planetario e di accesso equo e le enormi sfide logistiche di produzione e distribuzione. Movimenti internazionali come Gavi, legata a un personaggio discusso come Bill Gates, propongono strategie per una distribuzione equa, ma fin qui sono stati i paesi ad alto reddito ad accaparrarsi centinaia di milioni di dosi.

Anche gli sviluppi a lungo termine della pandemia sono imprevedibili. Non sappiamo se Sars-CoV-2 tenderà a diventare endemico, se avremo epidemie stagionali o ri-emergenze a lungo termine di sue varianti ed è impossibile prevedere quale vaccino garantisca i risultati migliori nelle diverse situazioni.

E se il vaccino prescelto non si rivelasse efficace, le conseguenze sarebbero gravissime: sia perché i vaccinati, credendosi protetti, abbasserebbero la guardia; sia perché la fiducia di molti nelle vaccinazioni potrebbe diminuire e si rafforzerebbe il circuito NoVax.
Ma l’argomento più dibattuto è quello dei rischi e al momento non possiamo avere dati certi: sia perché i numeri sono piccoli, sia perché gli effetti più temuti emergono nel lungo termine.

In particolare le apprensioni concernenti il possibile inserimento dell’Rna virale nel genoma umano non possono essere facilmente smentite. In ultima analisi accettare l’accelerazione delle procedure implica la fiducia negli enti di regolazione: per questo si sarebbe dovuto attendere le valutazioni, anziché assecondare i proclami delle multinazionali.

Comunque sia, una cosa è certa: puntare sul vaccino come unica arma risolutiva è pericoloso. Perché la pandemia non è un «incidente biologico», che senza preavviso ha colpito l’umanità e che può essere affrontato con farmaci e vaccini, ma il sintomo di una malattia cronica e rapidamente progressiva, che riguarda l’intera biosfera. Un dramma epocale inutilmente annunciato e che tenderà a prolungarsi e a ripetersi se non cambieranno le condizioni ambientali e sociali che lo hanno determinato.

È importante ricordare, infatti, che da almeno 18 anni a questa parte (Sars), ma potremmo anche dire dalla fine del secolo scorso, dalla morte di un bimbo a Hong-Kong (1997) per una polmonite da virus aviario (H5N1) le principali agenzie sanitarie internazionali emettono drammatici bollettini sull’imminenza di un evento pandemico potenzialmente catastrofico.

Il principale errore di chi punta esclusivamente su un’ancora aleatoria vaccinoprofilassi di massa consiste nel dimenticare che le pandemie sono drammi socio-sanitari ed economico-finanziari di enormi dimensioni che non potremo evitare senza ridurne le vere cause: deforestazioni, bio-invasioni, cambiamenti climatici e dissesti sociali (a partire dalle immense megalopoli del Sud del mondo).

E soprattutto se alle strategie di contenimento del virus e di riduzione delle catene dei contagi (lockdown) non seguirà una trasformazione radicale dei sistemi sanitari occidentali: perché è evidente che i paesi asiatici e socialisti (Cuba) nei quali la medicina territoriale è ben organizzata, hanno fermato in poche settimane la pandemia, al contrario dei paesi in cui il neoliberismo ha trasformato anche la medicina in un immenso Mercato.

* Membro del Comitato scientifico di ECERI (European Cancer and Environment Research Institute) – Bruxelles