«La performance stellare di Salvini sta spostando interi punti percentuali di consenso, fidatevi»: questo tweet si riferisce alla puntata di Ballarò dello scorso 24 febbraio. Chi esulta per la «performance stellare» del leader della Lega si chiama Luca Morisi. È docente a contratto di «Filosofia informatica» all’università di Verona.

Dunque, l’Italia appare ipnotizzata per l’ennesima volta da un serial leader che saltella – proprio come il protagonista del film pluripremiato agli Oscar, Birdman – tra spettacolo e vita. Il capo della Lega 2.0, onnipresente in televisione, incendia di rancore le praterie della società rinsecchite dalla crisi e inaridite dalle politiche di austerity. Opera un gioco di sponda tra Rete e Tv, mettendo a valore la lezione messa in pratica da Beppe Grillo nel corso della trionfale campagna elettorale delle elezioni politiche del 2013. In questo caso, al posto di Casaleggio c’è il quarantunenne Morisi. Grazie al quale i «mi piace» su Facebook sarebbero cresciuti di quasi il 900 per cento in un anno.

Nel novembre scorso, il leader leghista aveva raccolto 3,7 milioni tra commenti e condivisioni (triplicando quelli rastrellati da Grillo e moltiplicando i feedback ricevuti da Renzi di ben 130 volte) e 309 milioni di visualizzazioni. «L’85% degli utenti che accedono a Facebook ha visto nell’ultimo mese un post di Salvini», ha detto Morisi al Corriere del Veneto. Ma attenzione: l’esperto e il suo team, composto da una decina di persone sparse sul territorio, si avvalgono del contributo di app che spammano il Salvini-pensiero, moltiplicandone la condivisione automaticamente. Più di un internauta ha chiesto conto di questi “trucchetti”, sottolineando come la policy ufficiale di Twitter li consideri uso improprio. Morisi replica definendo gli interlocutori «rosiconi». «L’invidia del consenso in Rete è una brutta bestia», ha detto, sfruttando un frame (quello che vuole l’esercizio critico come pura espressione di gelosia personale) già impiegato da Berlusconi, Renzi e da molti grillini.

A ben guardare, la capacità leghista di usare i media è antica. Una lettura superficiale considera il partito di Salvini espressione, magari un po’ ingenua, di spontaneismo territoriale. Le camicie verdi e gli slogan xenofobi vengono associati alle feste pedemontane a base di salamelle e insofferenza fiscale: una forma magari criticabile ma in fondo genuina di malcontento territoriale. Il lamento del Nord, greve ma almeno spontaneo. Al contrario, Umberto Bossi ha raccontato a più riprese che gli insulti ai meridionali che caratterizzarono il leghismo degli esordi erano dettati proprio da esigenze mediatiche: «Capimmo che parlare male del Sud faceva scalpore e ci faceva finire in televisione». Del resto, l’operazione che ha plasmato la comunità immaginata padana, nazione di plastica infarcita di tradizioni inventate, come sarebbe avvenuta senza l’accondiscendenza (a volte ingenua e pigra, a volte interessata) delle tv dell’era berlusconiana?

I diamanti in Tanzania e la crisi del berlusconismo hanno imposto un cambio di passo. Per forza d’inerzia, spirito di conservazione ed emergenza disperata, il gruppo dirigente ha mandato avanti Salvini, che si è fatto le ossa e la parlantina ai microfoni di Radio Padania ma che prima era cresciuto con il mito della televisione, già concorrente di quiz come Doppio Slalom e Il Pranzo è Servito. Salvini pare afflitto, come molti suoi coetanei dall’ossessione compulsiva per like su Facebook e retweet. Da mesi è onnipresente sul piccolo schermo, saltella senza soluzione di continuità tra l’intervista serale e il post del pomeriggio. Agita il fantasma dell’«invasione migrante», fattispecie virtuale smentita dai numeri che diventa allarme percepito dagli italiani impoveriti. Giorno dopo giorno, l’ineffabile S. si è costruito un repertorio fatto di tormentoni televisivi e campagne cospirazioniste, ingredienti tipici del livellamento verso il basso dei contenuti che ha caratterizzato l’incontro tra masse e nuovi media di cui il grillismo è stato solo il primo segnale. L’altro Matteo, col quale Salvini ha condiviso aspirazioni da campione di quiz show e che recita con altrettanta verve spettacolare il ruolo di presidente del consiglio, non pare curarsene: la Lega 2.0 è l’avversario ideale, estremo quanto basta a lasciare spazi che consentono a Renzi di colonizzare il campo centrista garantendo al suo Pd il monopolio del voto cosiddetto «moderato».

La Rete che ogni giorno si trascina il leader leghista, usando come esche messaggi imbarazzanti e bufale conclamate (il New York Times lo ha messo al secondo posto, subito dopo il grillino Di Battista, tra gli spacciatori di notizie fake) è tutt’altro che orizzontale e partecipativa. Il Capo del branco digitale, al netto delle furbizie telematiche, ha successo. Pastura notizie false, catalizza il discorso, veicola pregiudizi, esattamente come accade quando una leggenda metropolitana si diffonde, illudendo di partecipare alla sua costruzione e al tempo stesso impossessandosi della capacità del prossimo di immaginare il possibile.

Renzi forse non si è accorto che Salvini conduce una guerra di movimento, non un conflitto di trincea. La via italiana al lepenismo impone lo sfondamento a destra e campagne di annessione. Ecco allora l’alleanza organica coi sedicenti «fascisti del Terzo Millennio» di CasaPound, le cui milizie vengono impiegate come truppe di avanguardia nelle periferie metropolitane.

Salvini denuncia, è successo solo pochi giorni fa, una cospirazione mondiale volta a rimpiazzare la popolazione europea (ariana?) con orde di migranti in cerca di spazio vitale. Il solo fatto che i talk show, presso i quali è richiestissimo, si trovino costretti a prendere in considerazione tali argomenti costituisce una vittoria, lo mettono su un piedistallo, nella posizione privilegiata di dettare l’ordine del discorso. Ecco perché Salvini da extrema ratio è divenuto asso nella manica.