Siamo in Cile, nel 1845, l’ambasciatore argentino, Baldomero García, arriva con una missione ben precisa: Juan Manuel de Rosas, l’autoritario tiranno che da dieci anni governa Buenos Aires, lo ha spedito lì perché convinca i cileni a cacciare – o almeno a far tacere – quel manipolo di esaltati che dai giornali di Santiago gli stanno facendo una implacabile guerra di parole, dopo aver perduto la guerra armata. Tra loro c’è un uomo particolarmente pericoloso, Domingo Faustino Sarmiento: a trentatré anni ha già collezionato due esili e, per giunta, scrive meglio di tutti gli altri.

Le lotte politiche argentine sono già approdate a una fase cruciale: due fazioni che incarnano prospettive sul mondo, tradizioni, addirittura modi di vestire e di parlare totalmente opposti si contrappongono a partire dal momento dell’indipendenza. Da una parte i federales, che rappresentano le Province, con le loro milizie di gauchos e l’attaccamento alle tradizioni rurali; dall’altra gli unitarios – legati alla capitale, al commercio con l’estero, alla cultura europea – che vedono nell’Europa e negli Stati Uniti i modelli da seguire. Nel 1835 i federales hanno conquistato il potere grazie a Rosas, e gran parte degli oppositori hanno dovuto prendere la strada dell’esilio: Sarmiento è uno di loro, e la sua risposta alla missione dell’ambasciatore non si farà aspettare. Comincia a pubblicare su El Progreso una serie di articoli in cui, narrando la vita di un famoso caudillo di provincia, attacca in realtà lo stesso Rosas. Quegli articoli diventeranno un libro, la Vida de Juan Facundo Quiroga, il cui impatto è tale che lo stesso dittatore sembra abbia affermato: «Il libro di quel pazzo di Sarmiento è la cosa migliore scritta contro di me. È così che si attacca, signori, e non c’è nessuno che mi difenda altrettanto bene».

Quel «pazzo» vivrà poi una straordinaria storia politica: viaggi in Europa e negli Stati Uniti, il ritorno in patria, l’elezione a senatore, tre anni come ambasciatore a Washington, per arrivare poi alla presidenza della Repubblica nel 1868. Durante il suo governo, tumultuoso e controverso, si dedicherà senza tregua a «modernizzare» il paese, con una attenzione tutta speciale al sistema educativo, la passione di tutta una vita. Alla sua morte nel 1888, lasciò cinquantadue volumi, un’opera gigantesca e una eredità che in Argentina alimenta ancora polemiche e discussioni.

In questo mare di pagine, il Facundo Civiltà e barbarie, di nuovo disponibile dopo quasi sessant’anni (con una bella introduzione di Alessandra Ghezzani, traduzione di Giulia Pardi, Mimesis, pp. 286, euro 24,00), resta un libro fondamentale, e non soltanto per la cultura argentina e latinoamericana. La voce di Sarmiento si costruisce in uno stretto dialogo con altre voci e altri testi, e chi voglia addentrarsi in questo mondo ottocentesco, senza dubbio di grande fascino, ha a disposizione diversi libri: il breve capolavoro di Esteban Echevarría, Il mattatoio (Aracne, 2010), vero testo fondatore della letteratura argentina, o le pagine del diario di viaggio nelle terre indiane, di Lucio V. Mansilla, (Un’escursione nella terra dei Ranqueles, Mimesis, 2014), mentre due riscritture contemporanee aiutano a capire come quelle questioni lontane ritornino ancora oggi nella società argentina: Respirazione artificiale, di Ricardo Piglia (Sur, 2014) e Il diario segreto di Pietro De Angelis di María Rosa Lojo (Oedipus, 2011).

Almeno quattro ragioni dovrebbero indurre il lettore italiano a affrontare il volume di Domingo Faustino Sarmiento, già di per sé ricchissimo di temi e di suggestioni: la prima sta nel «fascino della personalità», per quanto ambiguo risulti essere nei suoi riflessi del tutto attuali: il libro, infatti, si presenta a prima vista come una biografia – genere di grande successo all’epoca – di colui che era stato chiamato El Tigre de los Llanos per la ferocia con cui governava i territori sotto il suo controllo.

Fin dalla prima descrizione, è chiaro che Facundo incarna il male assoluto: «Il volto dalla forma leggermente ovale era immerso in una foresta di capelli che si congiungeva a una barba altrettanto spessa, altrettanto crespa e nera, che saliva su fino agli zigomi, pronunciati quel tanto che bastava per rivelare una volontà ferma e tenace. I suoi occhi neri, infuocati e ombreggiati da grandi sopracciglia, provocavano un involontario sentimento di terrore in quegli uomini su cui a volte finivano per posarsi».

Sarmiento oscilla tra il fascino suscitato dalla potenza dell’individuo e i condizionamenti sociali che ne derivano: lo stesso caudillo, se fosse nato in Europa sarebbe forse stato un Napoleone, ma «la società … conferisce a questi caratteri un modo speciale di manifestarsi: sublimi, classici, se si vuole, in certi paesi essi sono a capo dell’umanità civilizzata; terribili, sanguinari e malvagi, in altri ne sono l’onta, l’obbrobrio».

Il protagonista del libro di Sarmiento non è dunque soltanto uno scherzo della natura, una mostruosa eccezione, ma il prodotto di una «maledizione» geografica originaria, sintetizzata in una frase esemplare: «il male che affiligge la Repubblica Argentina è la sua estensione», e tutta la prima parte del libro sarà infatti dedicata alla descrizione di questo spazio inesorabilmente «altro». Proprio nella questione dell’alterità, del resto, troviamo il secondo motivo che rende attuale il libro per un lettore europeo di oggi. Quello spazio vuoto, immenso, terribile, «deserto», è la scena della contrapposizione che per Sarmiento sta al cuore della storia argentina (e americana), quella tra «civiltà» e «barbarie», tra l’urbe moderna e la campagna arretrata, tra gli uomini civili e i gauchos selvaggi. La «barbarie» contiene il passato, l’altro, l’estraneo, eppure la sua descrizione precisa rivela anche potenzialità inespresse dalle quali potrebbe nascere una qualche forma di poesia, come quella del gaucho cantor. Perfino Facundo si trasforma in un «prototipo estetico della barbarie», ha detto la scrittrice argentina María Rosa Lojo, fino a diventare quasi un mito letterario della negatività, un esemplare del «fascino della barbarie».

Nei capitoli conclusivi, quando si racconta prima l’arrivo del caudillo a Buenos Aires, poi il suo ultimo, fatale viaggio verso l’interno, il viaggio in cui troverà la morte nell’agguato di Barranca Yaco, la figura di Facundo assume una sorta di involontaria grandezza. Non è più solo l’incarnazione del male, il paradigma della violenza del potere: è diventato un «personaggio», la cui trasformazione lo ha reso un uomo problematico, dotato di una non scontata pluralità di dimensioni.
Proprio la «terribile grandezza» di Facundo ci indirizza verso la terza ragione per la quale vale la pena avventurarsi tra le pagine di Sarmiento, sedotto dalla peculiarità irriducibile delle vite americane. Sentite come parla di Bolívar: «in questa biografia io ho visto il generale europeo, i marescialli dell’Impero, un Napoleone meno colossale, ma non ho visto il caudillo americano, il capo di una sollevazione delle masse; vi vedo la caricatura dell’Europa, ma nulla che mi riveli l’America». Le vite e le storie degli americani mal sopportano, per lui, quei modelli europei dai quali tuttavia Sarmiento decide di partire, e se il futuro sta nella civiltà europea e nelle sua «magnifiche sorti e progressive», l’alterità dei presunti barbari, quella alterità che si vorrebe negare, esibisce una sua resistenza invincibile.

E c’è, infine, una ragione per immergersi nella pagine di Sarmiento, di natura strettamente letteraria: il racconto della vita di Facundo si svolge in uno stile di sorprendente modernità, perché la biografia si distacca dall’andamento lineare per accogliere salti temporali, digressioni politiche, notazioni di costume, tanto da diventare una mescolanza inclassificabile di generi letterari. E questi salti, a volte vertiginosi, da un registro all’altro, da un genere all’altro, sembrano essere imposti dalla natura stessa della materia trattata: raccontare l’alterità di popoli lontani, se non altro per costumi e cultura, richiede una scrittura contaminata, polifonica, e ovviamente «appassionata». Facundo è infatti un testo che intende fornire i materiali per la costruzione di una società nuova: da qui quel suo stile peculiare, la sua forza coinvolgente, come se dietro le parole si avvertisse la respirazione, a volte affannosa, di un passionale oratore.