La notizia, in sé, è semplice, per quanto spiacevole: dopo quarantanove anni A Rivista Anarchica cessa le sue pubblicazioni. La prima testata d’Italia «in ordine alfabetico» non arriverà più ai suoi abbonati e ai suoi diffusori, lasciando un buco là dove ogni mese era possibile leggere una rassegna piuttosto esaustiva di spunti, temi e idee dal variegato mondo libertario. La storia è nota e tinta di leggenda: il mensile preferito da Fabrizio De André (che finanziava), Piazza Fontana, la «strage di Stato», la campagna per la liberazione di Pietro Valpreda, la convinzione intima che «non esistono poteri buoni» e che dunque l’anarchia non sia una posizione estrema, ma l’unica davvero accettabile.

ERA LUNEDÌ 20 LUGLIO quando lo storico fondatore e redattore – in realtà direttore, ma odiava questa parola – Paolo Finzi ha scelto di morire lanciandosi sotto a un treno a Forlì, e non pochi si sono chiesti che fine avrebbe fatto la rivista di cui era anima, nume e cuore pulsante da decenni. La risposta è arrivata come un colpo secco alla fine della scorsa settimana: cessazione delle attività «per volontà testamentaria», dicono dalla redazione. «È evidente che per l’affetto e il rispetto che portiamo nei confronti di Paolo e della sua opera, seguiremo le sue indicazioni», si legge nella laconica lettera inviata a lettori e collaboratori.

Il sociologo Enrico Finzi, fratello comunista di Paolo, però parla di questo gesto come di «un’infamia» e, in qualità di esecutore testamentario, si dice «amareggiato, schifato, infuriato» perché «la decisione di non dare un futuro ad A è stata presa da un minuscolo gruppo di persone; non è stata condivisa da me e da tante compagne e compagni. Ribalta orientamenti sino a poco tempo fa accettati».
Da qui anche la definizione di quello che, secondo lui, sarebbe stato il futuro della Rivista Anarchica: un numero dedicato al suo fondatore – già in preparazione ma mai concluso -, l’uscita di altri numeri per arrivare alla prossima primavera, cioè al cinquantesimo anniversario, e poi «una prosecuzione a costi abbattuti, ricorrendo all’online». In sostanza, una morte dolce: se A è sopravvissuta tutto questo tempo è solo perché Paolo Finzi, di mese in mese, per miracolo (cosa a cui non ha mai creduto) riusciva a tenere insieme tutti i pezzi, far quadrare i conti e mandare il numero chiuso in tipografia, pronto per essere spedito. Per pensare che la Rivista Anarchica possa continuare a esistere anche senza di lui serve un notevole sforzo di immaginazione.

Sostiene, con una buona dose di ottimismo della volontà, Enrico Finzi: «L’idea è sempre stata quella di impegnare la meravigliosa comunità dei libertari e di alcuni supporter in uno sforzo condiviso, anche se Paolo lo riteneva improbabile». Soprattutto negli ultimi tempi, in effetti, il redattore di A aveva espresso a più riprese pensieri molto cupi sul futuro del mensile, pur continuando a tessere rapporti e a organizzare iniziative per un domani che infine ha deciso di non raggiungere.

QUEL CHE RESTA della redazione di A, comunque, non intende replicare alla sfuriata del fratello del fondatore, ma si limita a ribadire che «quello che Editrice A aveva da dire è stato scritto». Punto e basta.
Non ha senso chiedersi dove sia la verità, nel lutto e nella sconfitta, in fondo, si tratta di una faccenda poco rilevante, buona giusta per far agitare notai e avvocati, categorie di persone che gli anarchici tengono alla giusta distanza. A far più male sono le parole, i pensieri e soprattutto i sospetti, con la paura del tradimento sempre in agguato a tormentare le coscienze e a mettere in dubbio anche l’assunto più importante di tutti, quello del fuorilegge Jules Bonnot: «Rimpianti sì, ma in ogni caso nessun rimorso».
Sono gli ultimi riflessi di una storia dolorosa cominciata con la morte volontaria dell’anarchico Finzi e che ora vede una schiera di orfani in atroce difficoltà a gestire un’eredità non solo ideale: la rivista e i suoi oltre cinquemila lettori mensili sono un capitale che sarebbe un peccato disperdere.

NON CHE MANCHINO LE IDEE, ad ogni buon conto. La redazione di A sta lavorando per mettere in piedi un nuovo progetto e si è già lanciata alla ricerca di una casa editrice disposta a investire qualcosa, nell’ennesima riproposizione di un grande classico delle avventure anarchiche: la lotta per la sopravvivenza economica, un momento che di solito si vive con l’acqua costantemente all’altezza della gola ma che finisce anche con il cementare i rapporti e con la scoperta che l’impegno dei militanti-lettori spesso e volentieri si traduce in una pioggia di donazioni. È successo varie volte, non si può escludere che possa accadere di nuovo.

RESTA LA SPACCATURA nella famiglia anarchica ed è qualcosa in più di un cattivo presagio. È la manifestazione di una stanchezza che ormai si avverte da anni, come se la storia fosse andata troppo avanti e avesse lasciato i libertari fermi al palo a domandarsi quale direzione prendere. Un dramma politico che scivola sul personale, tra compagne e compagni anche di vecchissima data che se ne dicono di tutti i colori, in faccia e dietro le spalle. Di certo non un bello spettacolo.
È così che anche il testamento di Paolo Finzi diventa terreno di scontro: chiudere o no? E, se anche il fondatore avesse deciso di portare via con sé A, sarebbe davvero giusto ottemperare alle sue volontà o sarebbe meglio discuterle? C’è, ad esempio, chi taccia questa decisione, vera o presunta, di «autoritarismo», attributo ben poco anarchico e, dunque, da respingere in toto, costi quel che costi.

ALLA FINE, FORSE, l’eredità di Finzi non va ricercata nella rivista che ha tirato su come se fosse una figlia, ma nelle sue stesse parole, ovvero nella volontà sempre perseguita di condurre il pensiero libertario fuori dai suoi posti canonici, oltre le sue liturgie e i suoi spazi più o meno angusti, alla ricerca continua e ostinata di quel sospiro che si avverte ovunque nel mondo. La fiaccola dell’anarchia che resta accesa anche dopo che gli anarchici, per definizione «scacciati senza colpa», sono andati via.