Berlusconi è caduto, ma almeno per ora in piedi. Il Pdl è sfasciato, ma i mediatori sono all’opera per trasformare la debolezza in punto di forza: una coalizione in cui trovino posto, separati ma alleati, i duri guidati dal capo e i morbidi al seguito del suo ex delfino. Qualunque altro leader, dopo la rovinosa giornata di ieri, sarebbe tutt’al più un caro ricordo. Nemmeno nel più folle film demenziale gli sceneggiatori avrebbero osato buttare giù una scena come quella vista ieri a palazzo Madama.

I numeri dei ribelli, al mattino sono scarsi: una quindicina appena. Il condottiero, dopo l’ultimo fulmineo colloquio con l’ammutinato Angelino, ordina di procedere con squillo di fanfare. Il discorso di Letta capovolge il quadro: morbido che più di così non si poteva. Non una sola parola che il cavaliere non potesse sottoscrivere: mossa a sorpresa decisa perché in caso contrario la ribellione sarebbe affogata a ridosso del bagnasciuga.

Funziona. In pochi minuti i 15 scissionisti diventano 21, poi 23. Decollano fino a 25, con tanto di firme in calce alla mozione di appoggio al governo firmata da Maurizio Lupi. Formigoni, tra i registi ciellini dell’operazione, gongola e annuncia la creazione di gruppi autonomi, figli italiani del Ppe, dunque «I Popolari».
Silvio l’intransigente mangia la foglia e transige. Convoca il gruppo, suggerisce la fiducia, ma lo fa a mezza bocca: «Mi ha telefonato Barroso… Il mondo delle aziende ce lo chiede…». A discorso ambiguo corrisponde un esito del voto altrettanto incerto. I sostenitori del no secco ottengono la maggioranza: 27 voti contro 24. Ma la terza corrente, quella che vorrebbe uscire dall’aula, si piazza al secondo posto con 25 voti. Sommati a quelli dei paladini della fiducia formano un’ampia maggioranza.

Silvio s’impunta: uscire dall’aula no. Tanta pavidità disgusterebbe la platea elettorale. Sarà dunque sfiducia, e toccherà annunciarla proprio a una colomba rimasta fedele, il capogruppo Schifani. Ma i malumori non rientrano e alla fine sembra sia stato proprio Schifani a dare l’ultima spinta, rifiutando di annunciare il no del Pdl.
Con le spalle al muro il Perseguitato si arrende. Prende la parola e in un discorsetto-lampo, meno di tre minuti invece dei 10 previsti, dichiara il voto a favore del governo. L’ultima clamorosa, incredibile piroetta. Dovrebbe essere il suicidio politico. Non lo è. Il cavaliere ha ancora troppa presa nei gruppi pur devastati dalla guerra civile. I capibastone annunciano che per loro non c’è più bisogno dei gruppi autonomi.

Un particolare che cambia tutto: vuol dire che il re spodestato manterrà il suo potere di condizionamento e avrà modo di recuperare presto i dissensi. Il governo dovrà fare i conti con le sue bizze quasi come prima. Certo, nel Pdl è cambiato tutto. Il congresso si è già svolto, articolato nel corso della crisi, e i falchi lo hanno perso di brutta. Le lacrime che inumidiscono il ciglio di Verdini sono sincere. Per il resto cambia ben poco.

I dc di vecchia scuola, come Formigoni e Casini, capiscono al volo che l’operazione rischia di fermarsi a metà e schiumano rabbia. Più cupi in volto di così nemmeno se Letta fosse stato abbattuto. Dunque non si arrendono. «I gruppi si devono fare e si faranno» tuona l’ex onnipotente lombardo, ma a pochi metri il più giovane e rampante Lupi assicura il contrario: «Gruppi? E perché mai visto che siamo uniti?».

Ma le cose sono andate troppo avanti per i tarallucci e per il vino. Alla camera Cicchitto, reduce dalla quasi scazzottata televisiva con Sallusti, annuncia il gruppo autonomo. Al Senato non è detto che ci si riesca ma Formigoni è instancabile e ottimista. Tra i ministri solo la Di Girolamo resta col capo. Quagliariello e la Lorenzin già veleggiano. I cavallini di razza, Alfano e Lupi, nicchiano, ma promettono di non mancare all’assemblea notturna degli scissionisti e fanno filtrare che, pur se non immediatamente, anche la loro dipartita è prevedibile.
I pontieri però sono alacri e fissano un meeting notturno tra un Berlusconi raggiante e un Alfano anche più sollevato. La via d’uscita, probabilmente, sarà quella che Alfano aveva in mente sin dall’inizio: due gruppi distinti, però alleati perché tutti «berlusconiani». Quindi un rimpastino, per dare adeguata rappresentanza anche al gruppo berlusconiano doc tra i ministri.

Berlusconi ha perso. Non ha più il potere di dire l’ultima parola, e si sa quanto ci tenesse. Ma Berlusconi non ha perso, perché i voti necessari per lanciare i neodc ce li ha tutti lui. Dunque sarà coabitazione: nel centrodestra e nel governo. Una componente berlusconiana, l’altra, sempre più egemone, democristiana, presente in tutti i partiti di governo. La sinistra, di qualsiasi sfumatura, sarà finalmente superflua. Forse lo è già.