Negli ultimi decenni del XIX secolo vennero approvate in Gran Bretagna due leggi e un emendamento che avrebbero dovuto correggere, in qualche misura, la posizione subalterna delle donne, sancita dal diritto matrimoniale. L’opinione pubblica era scossa dall’inasprirsi della polemica sulla condizione femminile e dalle manifestazioni per il suffragio; le riviste pullulavano di interventi a favore – o contro – una nuova figura di donna emancipata e indipendente, etichettata con scarsa originalità «new woman».

Mentre la regina Vittoria, in quanto «matriarca d’Europa» divenuta ormai istituzione fatta carne, da sempre sorda, quando non apertamente ostile, alle rivendicazioni femministe, si apprestava a celebrare il cinquantesimo anniversario del suo regno, l’aspra requisitoria di Friedrich Engels sullo «schiavismo domestico» nell’Origine della famiglia, infiammava gli animi dei suoi sudditi.

In questo clima, anche gli scrittori cominciarono a situare al centro dei loro romanzi eroine non più sottomesse bensì ribelli, alla ricerca di una partecipazione attiva nella società: le protagoniste, per esempio, di Via dalla pazza folla e di Giuda l’oscuro di Thomas Hardy, o Diana di Crossway di George Meredith, donne volitive e caparbie, che inseguono un ruolo attivo nel mondo del lavoro, alla pari con gli uomini, e disprezzano i legami istituzionalizzati. A dispetto della loro pretesa «novità», queste figure femminili appaiono – come dissero subito le femministe, «men’s women» – donne immaginate da uomini, la cui ribellione è destinata a finire miseramente, con un ritorno al focolare domestico o l’accettazione di un vincolo coniugale che ha i tratti, nelle parole dello stesso Hardy, di una «prostituzione fanatica».

Esordire come donne emancipate, sposare l’uomo sbagliato, lottare per la propria libertà per arrendersi infine al conformismo dell’istituzione matrimoniale sembra essere il destino di tutte le new women create da autori di sesso maschile: tutte, meno le due protagoniste di Le Donne di troppo, il romanzo di George Gissing pubblicato nel 1893, primo titolo della rinata Tartaruga (traduzione di Vincenzo Latronico, pp. 474, euro 18,00). Realista dai toni a tratti torbidi, più attento all’influsso del dibattito politico e sociale e delle leggi del mercato sui suoi personaggi che non ai loro trasporti sentimentali, Gissing è il cantore di un’umanità lacerata da problemi economici, che vive la realtà metropolitana di fine secolo come una darwiniana lotta per la sopravvivenza: proletari e sottoproletari affollano i suoi primi lavori, autentiche «passeggiate selvagge» nei gironi infernali del sottobosco urbano; intellettuali idealisti che preferiscono morire di fame piuttosto che arrendersi alle richieste dell’editoria, nel suo romanzo più famoso, New Grub Street; donne della piccola e media borghesia, cresciute, secondo l’etica vittoriana, nella «convinzione che la scelta sia fra sposarsi e soffrire le pene dell’inferno», nei suoi lavori più importanti, Nato in esilio e Le donne di troppo.

Fin dal titolo, del resto, quest’ultimo romanzo, da molti critici ritenuto il suo migliore, mette l’accento su un problema scottante: la sorte delle nubili senza alcuna competenza professionale, quel mezzo milione di donne in più degli uomini che popolavano l’Inghilterra del tardo Vittorianesimo, destinate, nella migliore delle ipotesi, a ingrossare le fila delle istitutrici e delle infermiere e, nella peggiore, a essere sfruttate per miserrimi salari come commesse nei grandi magazzini o, peggio, a finire sul marciapiede.
Se la traduzione italiana del titolo si presta a una sola interpretazione, nell’originale, The Odd Women, l’aggettivo «odd» ha il duplice significato di «scompagnate, dispari, in più», ma anche «strane, eccentriche». In effetti, oltre alle «donne di troppo», nel romanzo appaiono le new women, i cui atteggiamenti e le cui idee sono senza dubbio strani se confrontati alla morale e al costume dell’epoca. Da un lato, Gissing mostra due femministe che lottano contro la società patriarcale con le armi dell’istruzione e dell’intelligenza, offrendo alle loro simili strumenti per inserirsi in un ambiente lavorativo fino ad allora prettamente maschile: l’ufficio, dove dovranno infiltrarsi vincendo l’accusa di danneggiare il loro stesso sesso. Dall’altro lato, l’autore inglese racconta la storia di tre figlie di un medico, rimaste orfane in età giovanissima, alla deriva in una Londra nebbiosa che non ha nulla da invidiare a quella del Dickens di Casa desolata: la più anziana si guadagna a malapena da vivere come governante, la seconda annega le proprie miserie nell’alcol e la terza, per la paura di finire come le sorelle, si piega a un matrimonio d’interesse che fin dall’inizio si rivela foriero di sventure.

Lavoro, rapporti tra i sessi e condizione femminile sono i temi chiave di Le donne di troppo, trattati senza mai perdere di vista il discorso economico. Conscia del fatto che «ormai per mestiere femminile si intende un mestiere che gli uomini disprezzano», la più anziana delle due protagoniste, Mrs Barfoot, con la sua scuola di dattilografia si propone di sottrarre le nubili al sovraffollato contingente delle maestre di scuola, per farle diventare «esseri umani razionali e responsabili». Accanto a lei, la più giovane e battagliera Rhoda Nunn sostiene l’indipendenza delle donne anche dalla sfera sessuale, spregiando il matrimonio come la peggiore delle disgrazie, «fonte di vergogna e miseria».

A rinforzare la sua posizione, Gissing rappresenta le pene della minore delle sorelle Madden, sposa di un anziano benestante, convinto che la necessaria supremazia del marito nell’unione coniugale sia dettata dallo stato di «infanzia perpetua» che caratterizzerebbe le donne, «per tutta la vita esseri imperfetti, alla mercé di ogni inganno».

Forse perché due matrimoni disastrosi segnarono la sua stessa esistenza, Gissing è impietoso nell’analisi dei problemi delle coppie, sia che si manifestino all’interno del vincolo coniugale sia che lo precedano (e magari arrivino a impedirlo). Proprio dalla rigidità di Rhoda Nunn e dal suo trovarsi a vivere sulla propria pelle la necessità di un compromesso tra ideologia e prassi, ovvero, nel suo caso, tra innamoramento e rifiuto della convenzione matrimoniale, scaturisce l’originalità del romanzo.

Le continue dispute sull’argomento con l’uomo di cui suo malgrado si è infatuata, la lotta più o meno conscia di entrambi per ottenere una qualche supremazia, non solo minano alla radice la possibilità della loro unione ma, quel che più sorprende, mettono il lettore a confronto con una disamina della questione matrimoniale scevra da pregiudizi, lucida e a tratti persino ironica, più unica che rara nell’universo letterario inglese di fine ottocento. Mentre Everard, lo spasimante, proprio perché attratto dall’indipendenza d’idee di Rhoda, desidera accendere in lei una passione tanto irragionevole da «vederla completamente sottomessa»,

Rhoda vive come una mortificazione il solo pensiero di presentarsi in abito da sposa di fronte alle donne cui ha sempre predicato l’emancipazione dalle norme sociali. Sicura che «rifiutare un corteggiatore … che così tante donne le avrebbero invidiato avrebbe rafforzato la sua autostima e le avrebbe permesso di perseguire i suoi scopi con passo più fermo», la donna teme che la sua storia d’amore la conduca a una «banale rinuncia a tutto ciò che aveva con veemenza predicato». Tra battibecchi, ripicche, equivoci, rese momentanee e ripensamenti, il romanzo si avvia verso una chiusa amara e drammatica, forse meno sconsolata dei tipici finali «alla Gissing», ma che comunque non lascia troppe speranze per il futuro del genere femminile.