Il Nadeem Center resiste alla chiusura, ma la scure governativa egiziana pesa ancora sull’organizzazione che tutela le vittime delle torture di Stato. Intanto i leader del Movimento 6 aprile celebrano l’anniversario in prigione, appena condannati a tre anni per proteste non autorizzate e possesso di volantini anti-governativi. E centinaia di altre organizzazioni rischiano di finire strangolate dal disegno di legge sulle Ong che dà al governo il controllo sui finanziamenti e il potere di dichiarare illegale qualsiasi associazione.

Ma, ne sono convinti in molti, la firma sotto quel disegno di legge è quella della Nsa, la National Security Agency. Di certo si sa che la Nsa ha formulato “raccomandazioni”. Come si sa che su 109 Ong pesa, da marzo, l’accusa di aver ricevuto fondi dall’estero per sabotare l’immagine dell’Egitto (reato per cui si rischia la prigione, dopo la modifica dell’articolo 78 del Codice Penale). Sono seguite inchieste, congelamento delle proprietà, divieti a lasciare il paese, interrogatori.

La risposta è univoca: «un assalto orchestrato sulla società civile», scrivevano pochi giorni fa 17 organizzazioni. Per questo aumentano anche le proteste: secondo l’Arabic Network for Human Rights Information, ce ne sono state 23 a febbraio e 37 a marzo.

A preoccupare è il ruolo sempre più preponderante dell’Nsa. Ha cambiato solo il nome: prima del 2011 era noto come Ssis, State Security Investigations Service. Tra i principali target della rivoluzione di Piazza Tahrir, è stato abolito nel marzo 2011 per ricomparire come Nsa. Eppure nelle strade egiziane lo slogan risuonò a lungo: «Servizi segreti, siete i bulli, siete i ladri dello Stato».

Oggi a capo del Ministero degli Interni – e quindi dell’Nsa – c’è il braccio destro del presidente golpista, Magdy Abdel Ghaffar: dopo 31 anni nel Ssis, oggi controlla 100mila uomini dell’intelligence responsabile di repressione, torture e sparizioni. Ghaffar, con rimpasti con cui ha assegnato posti chiave a uomini di fiducia, ha fatto dei servizi un apparato comprensivo che si occupa di anti-terrorismo come di sicurezza politica. Perché nell’Egitto di al-Sisi le opposizioni (lo sanno bene i Fratelli Musulmani) impiegano poco a finire nel calderone delle organizzazioni terroristiche. Così il presidente golpista ha costruito una strategia ampia che soffoca la società civile dietro la giustificazione della minaccia terroristica.

Per ottimizzare la performance, al-Sisi ha messo gli uomini giusti al posto giusto. Non solo Ghaffar: nello stesso giorno in cui il presidente Morsi finiva in prigione, il 3 luglio 2013, il generale nominava a capo del Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni) il suo mentore, Mohammed Farid al-Tohamy. Un messaggio al paese e all’esercito, il braccio su cui al-Sisi fonda la sua legittimità, privo di una forza politica parlamentare alle spalle. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa) e Gis.

Da eminenza grigia a nuovo faraone: la scalata del generale è un percorso di doppi giochi, ali autorevoli sotto cui porsi e tradimenti al momento giusto. Restando nell’ombra: quando Morsi, primo presidente democraticamente eletto in Egitto, lo nomina capo dell’esercito e ministro della Difesa, buona parte degli egiziani ignora chi sia. Da lì al-Sisi ha oliato la macchina del golpe, mostrandosi fido consigliere per la sua preda. E si realizza quello che scriveva nel 2006 nella sua tesi di laurea all’Us Army War College, mentre dissertava del concetto di democrazia in Medio Oriente: «Non c’è garanzia che la polizia e le forze armate si allineeranno con i partiti di governo emergenti».

A sostenerlo è l’enorme autorità dell’esercito. Sotto Mubarak al-Sisi cresce, si muove nelle reti di alleanze egiziane (addestrato da britannici e statunitensi e poi addetto militare a Riyadh), scala i vertici militari grazie a Tantawi, alla Difesa dal ’91 al 2012 e presidente del Consiglio Supremo delle Forze Armate, il governo di transizione post-rivoluzione. Il governo in cui al-Sisi, cresciuto in una famiglia molto religiosa, entra con il compito di stabilire contatti con la Fratellanza, primo passo verso il golpe.