Ci sono traguardi culturali (e sociali ed economici, di conseguenza, checché se ne pensi) che non meritano di passare sotto silenzio: ce lo ha insegnato, e bene, il periodo del lockdown, con quella sorta di necessitato silenzio degli eventi che ha mostrato quanto le nostre vite siano povere, senza arte. Nessuno schermo di computer può supplire un’esperienza dal vivo, a dispetto della rete: tanto più quando si parla di musiche, danze, pratiche che ci mettono in relazione gli uni con gli altri. Da vicino nessuno è normale, da vicino nessuno è diverso. La curiosità smuove i monti e getta manciate di sabbia negli oliatissimi meccanismi della guerra. Il Festival Musicale del Mediterraneo di Genova festeggia quest’anno, finalmente di nuovo in presenza con tutte le cautele sanitarie del caso, i trent’anni di esistenza. L’associazione Echo Art iniziò pionieristicamente nel 1992, l’anno delle celebrazioni colombiane, dopo aver già provato a imbastire una fortunata rassegna, Africana, negli anni precedenti: a rimarcare che non c’era spazio, nella città medaglia doro della Resistenza, per quegli osceni strilli di razzismo che l’anno prima s’erano alzati contro gli immigrati nordafricani e slavi. In trent’anni il Festival ha portato, anno dopo anno, oltre quattrocentocinquanta concerti, quasi quattromila musicisti da ottantotto paesi, con una raggio d’azione che è arrivato a estendersi fino all’Oceania, dal bacino nel Mediterraneo, innumerevoli workshop, seminari, mostre, conferenze.

ENTRO DICEMBRE uscirà anche un libro con supporto audiovisivo che racconterà la storia di questa esperienza centrale per la città che nel nome conserva la radice di “porta”, Janua: porta del Mediterraneo, porta del mondo. Quest’anno, a partire dal 1 settembre e fino al 19, Davide Ferrari di Echo Art porterà dieci date in svariate location cittadine, e dipanate dall’alba al tramonto, riportando in città i maestri assoluti delle musiche del mondo, diventati nel corso dei decenni veri amici del Festival, molte produzioni originali, nonché diversi seminari per apprendere nell’intercambio i segreti delle note e delle culture tradizionali. Il tutto su www.echart.org,, per un programma dettagliato, ma intanto vale la pena di ricordare, a futura memoria, che il Festival ha anticipato molti incontri apparentemente impossibili, negli anni: nel ’97 i dervisci rotanti turchi che accolsero in un loro rito musicisti, danzatori e danzatrici contemporanee, gruppi che misero assieme palestinesi e israeliani, maestri del flamenco e maestri del raga indiano, e tanti primi arrivi in Italia o in Europa: i Tuareg dell’Haggar da cui nacquero poi i Tinariwen del “desert blues”, gli Gnawa del Marocco, i Pigmei della Banda Linda, i monaci tibetani di Drepung, e via citando. Un luogo d’incontri di culture così caratterizzato ha significato anche sostegno a iniziative vere di pace: innumerevoli raccolte di fondi per Emergency di Gino Strada, Amnesty International, per fondare scuole femminili a Kathmandu se cuole di musica in Zimbabwe, per aiutare i bambini nella Bosnia in cenere.

Il FESTIVAL DEL TRENTENNALE  inaugura il 1 a Palazzo Ducale con musica e danza contemporanea da Deos, Dance Ensemble Opera Studio, e la sezione femminile della multietnica Banda di Piazza Caricamento, quest’ultima al gran completo per una reunion il 4 settembre al Forte Begato. IL 3 le percussioni acquatiche “Akutuk” della camerunese Lois Zango, il 4 concerto all’alba nel porto del maestro di percussioni Friederich Glorian, Raga indiano all’alba nel Porto il 5, , e il pomeriggio al Forte Begato la transe degli Gnawa del Marocco unita ad Arakne, pizzica salentina. Voci estreme il 7 con il vietnamita Trang Quang Hai, maestro id Demetrio Stratos e la tuvana Sainkho Namtchylak. Didgeridoo australiano al Castello d’Albertis il 10, tamburi rituali giapponesi l’11 a Villa Bombrini con Joji Hirota & Kyoshindo. Poesia, musica e immagini con Dove Cresce l’ulivo, il 17 settembre al Castello, incontro di corde etniche e no il 18 settembre a Palazzo Tursi con Cordofonie. Si chiude il 19 con un’arte “patrimonio immateriale dell’umanità” Unesco: il canto a tenores sardo, a Palazzo Tursi, rappresentato dal Tenores di Santa Sarbana di Silanus.