Al suo ritorno dal fronte europeo delle seconda guerra mondiale, l’indiano d’America Jimmy Picard inizia a soffrire di terribili mal di testa, attacchi di panico e intermittente cecità. Ricoverato in un ospedale psichiatricio per veterani, viene inizialmente diagnosticato come schizofrenico, ma la diagnosi viene messa in dubbio dopo una consultazione con l’ antropologo «francese» Georges Devreux, che decide invece di trattarlo psicoanaliticamente. Quasi tutto concentrato sul rapporto tra analista e paziente. Jimmy P.: Psychotherapy of a Plains Indian si svolge su uno sfondo non troppo dissimile da The Master di Paul Thomas Anderson: l’America alle prese con il trauma della guerra, il rapporto tra due uomini (qui meno una relazione di potere e dipendenza che di lenta scoperta reciproca), il boom della ricerca sull’interiorità (spiritual religiosa quella del film di Anderson, qui scientifica) dei primi anni 50. Il viaggio in Usa del francese Arnaud Desplechin, presentato a Cannes in concorso, è infatti tratto dal libro di Georges Devreux, Reality and Dream, il resoconto completo (secondo il regista tra i più dettagliati che esistano) dell’ analisi di Jimmy Picard, pubblicato per la prima volta nel 1951.

. Un indiano della tribù dei Piedi Neri nevrotico e sofferente, e un ebreo rumeno specializzato in nativi americani di origine Mojave, guardato con curiosità dall’establishment medico per le sue teorie etnopsicanalitiche. Tra i due, mai apertamente citata, è la complicità di chi conosce «la riserva» e cos’è uno sterminio. Teatro del loro incontro è la famosa clinica Menninger, a Topeka, in Kansas, che accolse molti studiosi di psicoanalisi arrivati negli States per sfuggire al nazismo. Jimmy e il professor Devreux (nato Gyorgy Dobò, in Transilvania) si incontrano ogni giorno, la «cura» che si fa lentamente un’amicizia che si evolve attraversando (anche visivamente) le memorie e i sogni di Jimmy. [do action=”citazione”]Il paziente Benicio Del Toro (aveva interpretato un indiano malato di mente nel film di Sean Penn La Promessa) guardingo, mite, quasi monosillabico, torreggia dolcemente sull’analista Mathieu Almaric (al suo quinto film con Desplechin), che è invece loquacissimo, febbrilmente animato[/do]

In realtà non è stata la guerra, e nemmeno la brutta ferita che si è fatto al cranio cadendo da un camion, a traumatizzarlo, ma il doloroso rapporto con le donne della sua vita: una madre, la sorella maggiore che lo ha cresciuto, la ragazza che non ha mai sposato (per uno stupido sbaglio) e la figlia, che non conosce quasi – tutte donne fortissime, dominanti o, come dice Devreux, usando – dice lui – la terminologia Indiana «virili».

Dopo il francesissimo interno borghese di Racconto di Natale il cinefilo Desplechin ha intrapreso quest’avventura americana, in omaggio al suo amore per il western, gli indiani e per il libro di Dee Brown Seppellite il mio cuore a Wounded Knee (1970), ha raccontato il regista in un’intervista apparsa su Telerama. Ma Desplechin non cade nella trappola dell’esotismo. E, quando il suo film si fa fordiano, è per la capacità di lirismo di certi momenti intimi, per il breve squarcio di Henry Fonda in Alba di gloria, perché il trauma di Jimmy echeggiadella sua gente (un trauma ritratto in modo devastante dal tardo Ford), non perché ci sono indiani e «visi pallidi» o panorami indimenticabili. Il film è infatti quasi tutto ambientato tra le imponenti mura di mattone dell’ospedale. Una cavalcata di Devreux insieme alla sua amante Madeleine (Gina McKee), alcuni squarci della fattoria della sorella di Jimmy (discendono da un capo importante della tribù, il che rende lo sfascio di lui ancora più triste), Topeka di notte, dove ogni tanto Jimmy va a ubriacarsi sono i pochi esterni che si vedono.

Da Spellbound a Dangerous Method passando per The Sopranos e In Treatment il rapporto tra analista e paziente ricorre spesso sullo schermo. Jimmy P è una delle sue rappresentazioni più dettagliate e meno conflittuali. Parlare per Jimmy è un sollievo visibile, curarlo per Devraux anche. Alla fine l’indiano nevrotico sarà molto più loquace e articolato (guarigione confermata in un esame medioevale che misura l’aria intorno al suo cervello), l’elettrico dottore ebreo più calmo e sicuro.

A partire da quale momento esatto un padre diventa realmente un padre? È la domanda che si pone un altro film del concorso Sochite Chichi Ni Naru (Tale padre, tale figlio), del regista giapponese Hiroazu Kore-eda, storia di un architetto ambiziosissimo e ossessionato dal lavoro (l’attore, cantante, fotografo Masaharo Fukuyama), della sua dolce sposa casalinga e del delizioso bambino di sei anni che, si scopre con orrore, in realtà non è loro figlio perché è stato scambiato con un altro bambino nell’ospedale dove entrambi sono nati, lo stesso giorno. Nel quotidiano lussuoso, asettico e piuttosto sterile dei Nonomyta appare quindi, improvvisamente una famiglia di segno completamente opposto,quella dei Saiki: piccolo borghese, a corto di quattrini, rumorosi, caotici, con tre figli scatenati il maggiore dei quali è l’altro bambino scambiato, il vero figlio dei Nonomyta. In casi come questo, spiega uno dei direttori dell’ospedale di campagna dove è avvenuto il disguido, il cento per cento delle famiglie opta per lo scambio, e cioè per rispettare i legami di sangue e riunire i bambini con i rispettivi genitori biologici. È quella anche la soluzione che, dopo una breve frequentazione tra famiglie, per cui spinge razionalmente l’architetto. Ma, alla fine, le cose non vanno come previsto.