Le narrazioni di fatti traumatici rivelano spesso in filigrana il proposito di conferire ordine e struttura a pensieri e vicende che sfuggono all’umana comprensione, uno sforzo mirato a penetrare, attraverso il racconto, realtà altrimenti indecifrabili. Toyoda Naomi, fotoreporter impegnato da decenni nelle aree del pianeta più soggette a conflitti e catastrofi naturali (dal Libano a Sumatra, ai territori palestinesi), si sottopone a questo sforzo con onestà e partecipazione in Fukushima. L’anno zero (traduzione dal giapponese di Yukari Saito, Jaca Book, pp. 159, euro 35,00), pubblicato di recente in Italia a tre anni dall’incidente nucleare del Tohoku, nel nord del Giappone.
La ricerca di una chiave interpretativa per una storia così assurda, inspiegabile – e mai veramente spiegata dal governo giapponese – va di pari passo con una riflessione ponderata e sofferta sul significato stesso della fotografia documentaristica. Si può raccontare un evento così doloroso? Questo è il dubbio che l’autore torna a fronteggiare ripetutamente. Qual è il modo più giusto per prestar fede, attraverso la pratica narrativa, all’impegno di rispondere alle domande che la storia – e la natura – ci pone? Questi interrogativi attraversano la sua scrittura e le immagini, trasformando il libro in una meditazione profonda intorno alla narrazione del trauma.
Toyoda arriva sulla costa di Sanriku, tra le prefetture di Iwate e Miyagi, nei giorni immediatamente successivi allo tsunami, e di fronte al panorama sconvolgente delle macerie è subito colto da un senso di angosciosa impotenza: «Né le fotografie né le immagini filmate potranno mai riflettere il mondo reale. È per questo che l’atto di scattare foto o girare video, in giapponese, si definisce “tagliare”. Foto e video possono solo descrivere una fetta del mondo preso in un certo momento e da una certa angolatura, proprio come non è possibile avere un panorama completo del mondo guardando da una finestrella». E così, consapevole dei propri limiti, persevera tuttavia nel «tagliare» le sue «fette» di mondo all’interno del quadro desolato del dopo-catastrofe, immagini frammentarie che raccontano un paesaggio sfigurato e ormai privo di unità, e mediante l’atto fotografico trova il proprio posto, per dirla con Sontag, in uno spazio in cui si sente instabile. Il libro si apre con una fotografia emblematica e dalla forte vena ironica, ma è un’ironia tragica.
È una strada di Futaba, cittadina che ospita due unità della Centrale di Fukushima Dai-ichi, ritratta subito dopo l’incidente. La scena è immobile, deserta, l’asfalto segnato da crepe, gli alberi spogli, e al centro un’insegna gigantesca recita: «L’energia nucleare: se la capisci correttamente avrai una vita agiata». Queste parole sintetizzano l’obiettivo principale della contestazione di Toyoda, quel mito della sicurezza del nucleare, energia positiva al servizio del bene comune, che le autorità hanno alimentato per decenni e dal quale è necessario emanciparsi per non ripetere gli stessi sbagli. Il nucleo fondamentale del libro è costituito proprio dall’opera di decostruzione del mito, condotta sul doppio binario dell’aspra denuncia delle incongruenze che hanno caratterizzato la trasmissione di informazioni attraverso i canali ufficiali, e della narrazione, commossa ma mai stucchevole, delle storie di superstiti e vittime.
Nel corso della lettura si percepisce nettamente la consapevolezza professionale e etica del proprio ruolo, per esempio nella precisione delle cifre e dei valori, documentati sistematicamente nel testo e nelle fotografie, in aperta opposizione con l’atteggiamento ambiguo delle autorità. Ancora, forse in risposta a un bisogno di coerenza, Toyoda ripercorre l’esperienza nei luoghi della catastrofe secondo una normale progressione nel tempo, ma esordisce e conclude ponendo al centro il medesimo elemento: l’infanzia, l’età vulnerabile, quella a cui si deve rendere conto degli errori commessi e delle volte che si è finto di non vedere. Nei bambini individua i principali referenti del debito che ogni adulto contrare con un essere umano, e proprio in loro trova una spinta decisiva per portare avanti la propria opera.
Attraverso questo doppio impianto, lineare e ciclico allo stesso tempo, Toyoda cerca di dare al dramma di Fukushima una struttura ordinata e comprensibile, nel tentativo di ricondurlo a una dimensione «umana». I dubbi, tuttavia, non lo abbandonano, gli riportano alla mente scene di disperazione viste in Iraq, in Libano, a Banda Aceh: tutto affiora nella narrazione e interrompe l’impianto diacronico, trasformando Fukushima nel simulacro di un dolore universale. «Fino a quando il mondo non conquisterà la felicità nessun uomo potrà essere felice»: queste parole del grande poeta Miyazawa Kenji (1896-1933), ritrovate su una parete dipinta tra le macerie, alimentano la convinzione profonda che occorra sentire il dolore di tutti, anche di chi è lontano, poiché non vi è diversità nella sofferenza, e la felicità dell’individuo non può prescindere dalla felicità del mondo intero.
Stride il contrasto tra la bella neve di Iwate cantata proprio da Kenji nelle sue poesie e i fiocchi candidi che nelle fotografie di Toyoda cadono a coprire rovine e calcinacci in un paesaggio grigio e monotono in cui l’unica figura umana quasi non si distingue, è immobile e impotente. In estate e autunno, sono invece pulviscolo e piccoli fiori a punteggiare immagini calde e luminose, e per qualche istante danno l’illusione di una rinascita. Ma poi si impongono, brutali e crude, le didascalie a ricordare al lettore che ognuno di quei puntini è in realtà un accumulo di particelle radioattive: è contaminato. La minaccia invisibile e inquietante delle radiazioni è dappertutto.
Quando l’autore si sofferma sui superstiti, fotografati nei rispettivi ambienti e impegnati nelle attività quotidiane, si sarebbe portati a intravedere in quell’operosità il segno del recupero di una dimensione normale, ma egli stesso mette in guardia il lettore: mai scambiare le proprie speranze con la realtà. Gli allevatori si prendono cura dei capi di bestiame pur sapendo che presto saranno abbattuti. Il latte sarà gettato via dopo ogni mungitura e gli spinaci, una volta colti, finiranno al macero. Sono sempre le didascalie a fornire questo supplemento di informazioni, in netto contrasto con ciò che le fotografie sembrano comunicare, e ciò proietta nella mente di chi le osserva il senso di precarietà e incertezza che anima l’esperienza dell’autore; che dimostra così una padronanza della composizione tale da permettergli di orchestrare ogni singolo elemento – fotografie, didascalie e testo – al fine di produrre una narrazione efficace.Attraverso l’immediatezza e la densità delle immagini, Toyoda invita il lettore a farsi carico del dolore di persone ritratte nella loro quotidianità, a contatto con i loro oggetti, in un discorso che ricorda l’imponente opera su Nagasaki di Tomatsu Shomei (1930-2012), il fotografo che con maggiore convinzione raccontò il trauma dei sopravvissuti all’atomica.
L’appello alla condivisione, alla responsabilità, si conclude con l’obiettivo puntato sulle madri di Fukushima, quasi facendo eco a Oe Kenzaburo, che in Note su Hiroshima si era soffermato sulle madri della città distrutta nella Seconda guerra mondiale. Compite, severe, dure: è nell’immagine di queste donne che si ravvisa il conflitto interiore più difficile e profondo.
Libro fotografico dal forte impatto, Fukushima. L’anno zero è a un tempo un’indagine coraggiosa su uno degli incidenti più devastanti degli ultimi anni e un’occasione di riflessione sull’atto del racconto, per parole e per immagini, le esperienze traumatiche del mondo odierno.