Il porto di Gioia Tauro, il più grande terminal di transhipment del Mediterraneo, fin dalla sua nascita, nel 1994, fu tenuto sotto controllo dalle cosche di ‘ndrangheta.
Nel febbraio del 2008 in carcere sono finiti quattro esponenti del clan Pesce, tra cui il reggente Marcello Pesce, indagati tra l’altro per l’estorsione ai danni della Medcenter Containers Terminal Spa, la società terminalista che gestisce le attività di scalo. Per decenni la politica di spartizione delle risorse, la suddivisione della gestione mafiosa delle strutture portuali hanno garantito stabilità al gruppo Mammoliti-Molè.
In particolare il controllo del porto ha assicurato la gestione sinergica di altre attività, oltre al traffico internazionale di stupefacenti, come il commercio clandestino di armi da guerra provenienti dalla Bosnia e dalla Croazia, e il contrabbando di sigarette.
Dalle carte processuali è emerso che per le operazioni di transhipment, e dunque per il trasbordo da navi di grande tonnellaggio, stoccaggio e trasferimento dei container verso altri scali a mezzo di navi di stazza minore o per rete ferroviaria, le ‘ndrine della zona avevano preteso il pagamento di 1,50 dollari per ogni container scaricato. Nella Relazione della Commissione antimafia sulla ‘ndrangheta del 2008 si legge: «L’intera gamma di interni o in subappalto attività di mafia è influenzato, dalla gestione della distribuzione e della trasmissione al controllo doganale e contenitori di stoccaggio. È legittimo affermare che la malavita ha eliminato la concorrenza di società non controllate o influenzate dalla mafia nella fornitura di beni e servizi, e nei lavori di costruzione.
E ha gettato un’ombra sul comportamento del governo locale e altri organismi pubblici».