Il traditore di Marco Bellocchio è fuori dalla shortlist dei dieci film tra cui verranno selezionati i cinque titoli finalisti per l’Oscar al «Best International film» (la nuova dicitura del Best Film in a Foreign Language) che verrà annunciata il prossimo 13 gennaio insieme alle altre categorie – la cerimonia sarà il prossimo 9 febbraio. La notizia, arrivata ieri mattina, ha acceso commenti e acide polemiche pro e contro il film, pro e contro l’Academy, pro e contro le «logiche» delle statuine, come se si fosse allo stadio.
Diciamolo subito. Il traditore è un bel film, persino nei suoi passaggi sbilenchi – anzi anche per quelli – ma non è questo il punto. Rispetto ai dieci titoli nell’elenco – Parasite (Corea del Sud) di Bong Joon-ho, il super favorito, Dolor y Gloria di Pedro Almodovar (Spagna), Les Misérables di Ladj Ly (Francia), Atlantique di Mati Diop, (Senegal), The Painted Bird di Václav Marhoul (Repubblica Ceca), Truth and Justice di Tanel Toom (Estonia), Those Who Remained di Barnabás Tóth (Ungheria), Honeyland di Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov (Macedonia, titolo presente anche nella shortlist dei documentari), Corpus Christi di Jan Komasa(Polonia) e Beandole di Kantemir Balagov (Russia) – manca di qualcosa, che pure nelle opere presenti in lista più alte per qualità, come appunto Parasite o Atlantique, è dettaglio dominante: una riconoscibilità, nel caso del film di Bellocchio «italiana» del genere, che ricorre con motivi diversi negli altri film – sorretti inoltre quasi tutti da «temi» sociali importanti, banlieue, scontro di classe, immigrazione, metafore atroci della guerra, tradizioni culturali risucchiate dalla modernità.

LA STORIA di Tommaso Buscetta è una storia di mafia, ma è più Il Padrino che Gomorra, l’immagine (immaginario) a cui fa pensare: un melodramma in una Sicilia di altri tempi, una vicenda italiana e internazionale che nulla ha però dei tempi e dei modi di quell’«italianità» oggi da esportazione.
Non entro nel merito dell’«era meglio quello o quell’altro», la corsa agli Oscar – e la riuscita – lo sappiamo è determinata anche da molti altri fattori ma quella riconoscibilità probabilmente per il film straniero continua a essere una chiave centrale. Pensiamo a quando vinse Sorrentino con La grande bellezza: di cosa si era parlato a proposito di quel film? Dell’Italia, anzi no, del cinema italiano dei tempi di Fellini, di cui gli osservatori rivedevano la mano nelle immagini di Sorrentino, l’Italia della Dolce vita condita con un po’ di berlusconismo, in fondo anche questo un «fattore italico» ben riconoscibile, tipo i marchi di cui ci vantiamo – e poco importa se sono ormai multinazionali scarpe borse quant’altro. E che poi Fellini la Dolce vita non la faceva da tempo, anzi lottava per uscire dal silenzio a cui lo avevano relegato poco importa.
Il traditore invece (e per fortuna) non è nulla di tutto questo. Alla cifra del film «storico», in senso tradizionale – nonostante la cura di ricostruzione degli ambienti e delle atmosfere di ogni epoca che attraversa – e a quella della «realtà» esplicitata nell’uso dei materiali d’archivio quasi tutti televisivi, antepone saldamente il suo personaggio, Tommaso Buscetta, in uno scarto tra cronaca e narrazione nel quale la regia dichiara il suo sguardo. Che è meravigliosamente «inattuale» per riferimenti, ambienti, codici, non cerca di accarezzare le abitudini ammiccando a questa o a quella serialità, a questi o a quegli interni ma mescola tragedia, opera (verdiana), e soprattutto un senso del cinema indocile agli obblighi del genere. A quello almeno che vediamo adesso, a quello che risponde a una visione dell’Italia stretta tra il passato glorioso e gli interni pacchiani di un boss di camorra qualsiasi. Rimane un film importante, e questo conta molto anche se dispiace che sia andata così.Anche perché il cinema italiano migliore – per fortuna – sta da un’altra parte.