L’Italia divenne per davvero uno «Stato fascista» o non sarebbe invece meglio parlare di uno Stato ai tempi del fascismo? In altre parole, quale dei due capi della relazione prevalse durante il Ventennio mussoliniano?
La dimensione ideologica, con la sua carica al medesimo tempo aggressiva e radicalizzante, ispirata a una tanto incongrua quanto ipnotica modernizzazione, oppure la continuità degli apparati già ereditati dall’esperienza dell’amministrazione liberale, poi transitati attraverso la Grande guerra e riprodottisi, sia pure con alcune differenze, soprattutto dinanzi alle sollecitazioni introdotte dal conflitto sociale postbellico, nell’organizzazione di regime? Guido Melis, storico contemporaneista, docente alla Sapienza di Roma e studioso delle dinamiche delle pubbliche amministrazioni, nel suo corposo lavoro dedicato a La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista (il Mulino, pp. 616, euro 38), parla non a caso di «un totalitarismo sempre annunciato e mai interamente realizzato, un sistema di istituzioni imperfetto, fatto di vecchi e nuovi materiali confusamente assemblati senza un progetto lineare, con un’evidente vocazione, nei momenti cruciali della ricostruzione dello Stato, al compromesso tra vecchio e nuovo».

IL QUADRO che l’autore ci restituisce è quello di una complessa e stratificata policrazia in totale assenza di pluralismo, propendente quasi sempre alla compromissorietà. Quindi incapace di tradurre intuizioni e suggestioni in pratiche politiche autonome, dovendo semmai costantemente rispondere a mediazioni variamente articolate, che ne affaticavano e appesantivano il percorso, molto spesso producendo un’eterogenesi dei risultati. In altre parole, non si era in presenza solo dell’evanescenza, della millanteria e del velleitarismo del regime, caratteristiche sbrigatoriamente identificate dai suoi avversari come i suoi tratti esclusivi, ma dell’organica incapacità di dare corpo e sostanza ad un progetto di Stato «nuovo» da affiancare alle non meno incaute formulazioni sull’affermarsi di un modello di uomo antiborghese, connotato dai tratti viriloidi e guerrieri.

LA GUERRA mondiale si sarebbe peraltro incaricata di fare strame di queste posizioni identitarie, sulle quali il fascismo aveva costruito una ricca narrazione di sé, salvo poi rivelare la fragilità dell’intero impianto.
Alla persistenza così come alla sovrapposizione, alla reciproca contaminazione ma anche alla competizione tra organismi ed apparati vecchi e nuovi, si accompagnava dunque il persistente riprodursi di una dialettica tra interessi contrapposti, proprio per ciò impossibilitati ad arrivare a quella inedita sintesi che il fascismo intendeva invece proporre come la vera chiave attraverso la quale leggere la sua carica eversiva. Afferma Melis: «emerge la novità ambigua di uno Stato-partito costituito ex novo modificando in profondo la Costituzione liberale, ma al tempo stesso condizionato sino all’ultimo dalla sopravvivenza degli antichi equilibri: cioè dal modello di Stato ideato a fine Ottocento dai maestri del diritto costituzionale e amministrativo».
Si tratta di una questione che va ben oltre il problema della reciproca perimetrazione tra la Corona e il regime, in un sistema di persistente diarchia dove la propensione alla neutralizzazione dell’interlocutore, potenzialmente antagonista, si traduceva nella difficoltà di portare avanti linee autonome di indirizzo politico.

UN FATTO che richiama non solo il problema storiografico, al netto di qualsiasi giudizio politico e morale, del grado di effettiva dirompenza del fascismo sulla scena italiana, e poi europea, ma anche il tema della funzione della sovranità, e delle modalità del suo esercizio, in quello Stato contemporaneo che era il prodotto dell’età della nazionalizzazione delle masse. Poiché la vicenda del sistema mussoliniano, ovvero del suo originario costituirsi e poi della sua ventennale coesistenza con quello regio, in assenza di qualsiasi dialettica che non fosse quella prescritta da un rapporto di esclusività tra questi due soggetti, e di riflesso di questi con gli altri attori pubblici, rimanda immediatamente al problema della condivisione competitiva di un comune terreno, quello dell’identità delle istituzioni pubbliche e, con esso, della fedeltà agli autentici centri di potere.

PARE QUINDI più plausibile leggere le mancate od omesse realizzazioni del fascismo in rapporto ad un tale campo di tensioni che non solo come il risultato del suo deficit originario di cultura e capacità di azione politica. Va detto a suo merito che Melis sa accompagnare con coerenza il lettore attraverso il ginepraio di istituzioni, soggetti collettivi, attori individuali ma anche situazioni, percorsi e contesti che hanno caratterizzato tra il 1922 e il 1943 il totalitarismo imperfetto e riluttante dello Stato fascista. Il libro si compone infatti di quattro macroaree tematiche di indagine, rispettivamente dedicate al governo, al partito, alle istituzioni legislative, giudiziarie, repressive e, infine, allo Stato come gestore e mediatore di interessi corporativi. Non costituisce una storia del fascismo ma un’indagine sull’amministrazione italiana in età fascista così come del regime nel suo definirsi in rapporto al reticolo amministrativo. Anche per questo, affiancandosi ai lavori di Sabino Cassese, è un utile contributo di analisi, di contro, invece, alla tendenza alla banalizzazione del problema del lascito dell’esperienza del Ventennio.