A proteggere gli abitanti di Nimrud, a ogni ingresso lungo le mura della città, c’era un grande toro androcefalo alato: cinque metri di stazza per mettere in fuga gli spiriti maligni e per infondere un senso di rispetto e di sottomissione nel visitatore che si avvicinava allo sfarzoso palazzo del sovrano. Oggi, il più famoso toro dal volto umano non c’è più: lo Stato islamico l’ha fatto saltare in aria in una giornata di primavera dello scorso anno. Lo si può però ritrovare, come presenza onirica, imperturbabile nonostante la sua rovinosa sorte, fra le arcate del Colosseo a Roma. Non è un caso di resurrezione di una statua millenaria, ma una ricostruzione in polistirolo con un impasto di pietre e resina di un modello a dimensione naturale sulla scorta di fotografie, disegni, studi accurati, riproduzioni in 3D.

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La divinità mesopotamica non è la sola protagonista della rassegna Rinascere dalle distruzioni. Ebla, Nimrud. Palmira, inauguratasi all’Anfiteatro Flavio (a cura di Francesco Rutelli e Paolo Matthiae, in collaborazione con l’associazione Incontro di Civiltà e Fondazione Terzo Pilastro che l’ha finanziata con 480mila euro): a farle compagnia ci sono altri monumenti distrutti dalla furia della guerra, come la Sala dell’archivio di Ebla (le cui tavolette ritrovate grazie alla missione condotta da Matthiae immersero la città carovaniera nei flussi della scrittura cuneiforme) e il soffitto della cella del Templio di Bêl (Palmira).
Questi tre giganti del passato feriti e disintegrati rimarranno, chiusi nel loro enigmatico silenzio, a interrogare il visitatore fino all’11 dicembre, catapultati nel presente da una suggestiva installazione di Studio Azzurro e rinforzati dall’arrivo da Damasco di due bassorilievi sfregiati che l’Italia restituirà una volta restaurati, se mai esisterà ancora un paese meraviglioso chiamato Siria.

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L’esposizione conferisce loro un triste e muto destino di «corpo-segnaletica». Innanzitutto, la location. Il Colosseo, pur se preso d’assalto da orde di turisti spesso incuranti della stratificazione della storia e tanto più della memoria, può essere un ottimo amplificatore di un’idea. Già, ma qual è l’idea che sottende a un’operazione che gode del patrocinio Unesco e per l’opening ha scomodato ben due ministri, Gentiloni per gli esteri e Franceschini per i beni culturali più il presidente della Repubblica Mattarella?
Se è davvero quella di rendere consapevole l’opinione internazionale di una catastrofe umanitaria e culturale avvenuta in questi anni alle porte del Mediterraneo, fallisce del tutto l’obiettivo. Il dispositivo di comunicazione (non sono sufficienti alcuni succinti pannelli) è irrisorio. Cosa assai più grave è assente dalla mostra un percorso scientifico, seppur divulgativo, che faccia da breviario ai modelli riproposti come simboli universali del disastro.

Diverse mostre negli ultimi tempi hanno dovuto fare i conti con l’impossibilità di avere in prestito da zone di guerra e distruzione i reali reperti (alcuni poi polverizzati, dunque non più esistenti), ma il ricorso alle tecnologie del virtuale, insieme a documentazioni scritte, fotografie, filmati, narrazioni letterarie e artistiche – non ha inficiato la facoltà di intessere un impianto concettuale, cristallino, che risvegliasse le coscienze e aprisse la strada al dibattito sulla ricostruzione (non poi così lontano dal dna italiano, paese funestato da terremoti seriali).

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L’iconoclastia ha radici antiche e una lunga storia di violenza e cancellazione dell’altro da sé da raccontare. La mostra voleva andare «oltre la sfera culturale». Troppe omissioni perché sia vero, troppo esigua la «rinascita dei monumenti»: le tre aziende italiane impegnate nella realizzazione dei modelli hanno fatto un lavoro di alta qualità – la Sala Archivio di Ebla è riprodotta in vetroresina così da simulare meglio la muratura a crudo – , ma i curatori hanno perso un’occasione preziosa di approfondimento.
Visitando la mostra, si ha l’impressione di essere destinatari di uno spot politico e non si può che rimpiangere un’altra rassegna allestita tempo fa nel museo archeologico di Mantova: narrava una «storia delle distruzioni», dai conflitti alle alluvioni, ponendo l’interrogativo sulla rovina, traccia della memoria che resiste al tempo.