Crema portoghese, Latte di venere e un BiancoNero Charlot creato in occasione dei cent’anni dalla nascita del vagabondo di Charlie Chaplin e la cui silhouette stilizzata orna le borse bianche e nere dell’edizione 20 14 del festival Il cinema ritrovato. Sono soltanto alcuni dei gusti di «gelato ritrovato» offerti dalla cremeria bio Gelatauro grazie al recupero di antiche ricette per le creme aggiunte nel «cartellone», un gusto al giorno, proprio come le proiezioni serali, occasioni uniche per (ri)vedere classici, per lo più restaurati, nella fascinosa sala all’aperto che è Piazza Maggiore col suo schermo gigante.


A hard day’s night
diretto da Richard Lester ha chiuso sabato sera una «hard week’s sight», ossia una dura settimana di visioni, parafrasando il titolo originale del primo film girato con i Beatles nel lontano 1964 e che quest’anno festeggia i suoi cinquant’anni. «Tutto è nato per caso», ha esordito l’autore parlando di questo poema un po’ dada, un po’ surrealista, dai ritmi tipicamente nouvelle vague francese anni sessanta, davanti a una platea di oltre settemila spettatori, seduti, in piedi o sdraiati, tutti rigorosamente col naso all’insù in attesa dello scatenato quartetto di Liverpool: John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr e George Harrison.

«Iniziammo a scrivere la sceneggiatura quando erano noti soltanto in Gran Bretagna», prosegue Lester, visibilmente emozionato sul palco accanto a Peter van Bagh, il direttore della kermesse che, per una settimana ha animato ben cinque sale in città, dalle 9 del mattino fino all’una di notte, offrendo un cartellone di oltre trecento pellicole, di diversi periodi storici e formati. Si va dalle proiezioni a 16/18 fotogrammi al secondo nella sezione Cent’anni fa. Intorno al 1914, fino al 35 mm scannerizzato in 4k e riversato in digitale per il restauro splendido nelle sue varie sfumature di bianco e nero d’epoca nel caso del qui citato A hard day’s night curato da Criterion, passando per gli omaggi, tra gli altri, a James Dean, William Wellman, tra muto e sonoro, e a Riccardo Freda.

La rassegna è ritornata – dopo l’omaggio del 2006 con un focus sulla sua produzione sperimentale – al cinema di Germaine Dulac, presentandone cinque lungometraggi muti (tra cui La cigarette del 1919), nonché numerosi corti musicali e altri con contenuti più politici e/o di attualità, i cinegiornali, che per la cineasta contemporanea di Antonin Artaud erano «la forma ‘più sincera e pura’ di cinema» – come leggiamo sul catalogo (progetto editoriale della Fondazione Cineteca di Bologna, pp. 335, 15 euro in libreria) nella sezione a lei dedicata e curata da Tami Williams.

Ma torniamo nell’affollatissima piazza dell’ultima sera e al serrato dialogo tra Richard Lester e il critico finlandese alla guida del festival da oltre dieci anni. «Terminata la fase della scrittura da parte di Alun Owen, il fenomeno Beatles era a quel punto esploso anche negli Usa, consacrato definitivamentecon l’apparizione nello show televisivo di Ed Sullivan» sottolinea il regista, incalzato da Van Bagh che chiede altri dettagli. Lester ricorda di aver girato un piccolo film con Peter Sellers – visto e apprezzato da Lennon che si offrì di accompagnare al piano le proiezioni visto che Lester non era proprio del mestiere.

Fu a partire da lì che nacque questa storia-omaggio a quattro persone, «più uniche che rare e di grande talento, difficilmente rintracciabili altrove, in contrasto col mondo intero, dove non va dimenticato che nei primi anni sessanta regnava ancora il verbo dell’establishment alto-borghese inglese che recitava un severo ‘abbiamo combattuto una guerra per voi!’, a fronte della benché minima iniziativa di giovani. I Beatles si erano semplicemente opposti a tutto questo potere precostituito».

Il colpo di genio di Lester, consapevole del fatto di trovarsi di fronte «non attori», è inventarsi una sorta di «fictionalised documentary» ovvero costruire una storia credibile intorno a scenette inventate per un gruppo musicale inseguito da fan urlanti, accerchiato da giornalisti in una conferenza stampa, in albergo e sul palco, per rispecchiarne la quotidianità. «Per evidenziare da subito il dato non reale, abbiamo introdotto elementi surreali, perché Lennon e io adoravamo lo spirito surrealista», aggiunge sorridendo il regista americano e sottolinea, inoltre, che la grande qualità di quei «quattro boys» era sapersi guardare da fuori in modo auto-ironico.

Lester si congeda con un interrogativo assolutamente da rivalutare in questa nostra era edonista e selfie: «Non è proprio per questo distacco critico riguardo anche al successo che stavano vivendo all’epoca che, forse, mezzo secolo dopo queste vicende interessano ancora moltissima gente?».

Appassionano certo, come gli altri recuperi dagli scaffali della memoria dell’edizione 2014. Il Cinema ritrovato dimostra di essere più che mai «macchina del tempo» e «macchina dello spazio» con incursioni tra Vedute dall’Impero ottomano dal 1896 al 1914 (a cura di Mariann Lewinsky e Jay Weissberg) ed escursioni verso l’India (il cinema bollywoodiano anni cinquanta con classici da salvare), la Polonia (la nouvelle vague anni sessanta e i primi risultati in cinemascope).

E il Giappone (con film sonori della Shochiku, a cura di Alexander Jacoby e Johann Nordström), tra cui menzioniamo Hitori Musuko, prima opera parlata a firma di Yasujiro Ozu, del 1936 e nota in Italia come Figlio unico, di inaudita bellezza nelle sue tipiche riprese raso terra nonché di stretta attualità per il tema trattato ovvero i reali valori di un uomo che vive in una società in crescita esponenziale. Un lavoro che all’epoca venne considerato una critica feroce al Giappone che stava per abbracciare le idee nazional-socialiste, oltre che coltivare l’economia industrial-capitalista tipica dei primi del Novecento.