Kobe Bryant è un uomo in controllo del suo corpo. Con le redini sulla sfera emotiva dei suoi avversari da quasi venti anni a questa parte. Ieri il fenomeno dei Los Angeles Lakers ha informato il carrozzone Nba e lo sport mondiale che è arrivato il momento di dare respiro a ginocchia, gomiti, dita, a quella macchina perfetta che l’ha portato a segnare oltre 30 mila punti nella Lega, terzo assoluto dopo Kareem Abdul Jabbar e Karl Malone. Altri quattro mesi di Nba e poi stop.

La sua lettera al basket pubblicata da The Players Tribune: «Mi hai fatto vivere il mio sogno di diventare un Laker e ti amerò per sempre per questo. Ma non posso amarti più con la stessa ossessione. Il mio cuore può sopportare la battaglia, la mia testa può gestire la fatica, ma il mio corpo sa che è il momento di dire addio. Questa stagione è tutto quello che mi resta».

Lo spettacolo è finito, dal prossimo 13 aprile, ultima allo Staples Center, la casa degli angelini, contro gli Utah Jazz, niente più movimento sincopato e tiro in sospensione con la lingua da fuori, solo uno dei dettagli che lo rendono così simile a Michael Jordan, il mito divenuto esempio, sino a ossessione. Bryant aveva messo Jordan nel mirino, voleva il sesto titolo Nba per eguagliarlo, in quell’eterna disputa con se stesso, con canestro e avversari comprimari.

Insomma, il Black Mamba, il suo soprannome, si ritira, finisce nella teca. Si mette da parte prima di essere arrostito dalle critiche di tifosi, giornalisti, amanti dell’universo Nba, che non ha mai fatto sconti a nessuno. In realtà spifferi di spogliatoio sulle sue cattive prestazioni spiravano dall’inizio della preseason e durante le prime negative settimane di stagione regolare dei Lakers, che hanno collezionato sconfitte, figuracce, senza alcuna possibilità di arrivare ai playoff. E con Kobe al minimo storico di punti realizzati dal campo (15 punti in media), e con percentuali al tiro intorno al 30%.

Polaroid ingiallita di se stesso. Non era più lui, quel ragazzo competitivo cresciuto in Italia vedendo suo padre JellyBean da bordocampo. Ed è sfumata anche la soggezione che Bryant imponeva agli avversari, consumati dalla sua voglia di vincere, di primeggiare. Di essere il migliore, con un’etica selvaggia del lavoro che l’ha sempre portato a stagione finita, mentre gli altri cestisti erano al mare o sulle spiagge californiane a sorseggiare tequila sunrise, ad alzarsi alle cinque del mattino, con interminabili sessioni di tiri, di movimenti faccia a canestro o in allontanamento. Come se il suo repertorio di gioco, il suo personale arsenale andasse puntellato di stagione in stagione. Così fanno solo i campioni.

Da qualche settimana erano cominciati gli omaggi nei palazzetti dello sport della Nba, che in passato l’avevano pure fischiato. Tutti in tribuna a vederlo tirare per l’ultima volta, pareva quasi scritto che Bryant fosse al passo d’addio, lo diceva il campo, i numeri, gli avversari, il suo linguaggio del corpo, quella serie infinita di tiri senza centrare il bersaglio. La lotta ancora ostinata con se stesso, stavolta senza munizioni per spuntarla. E in rete si sprecavano i filmati che ironizzavano sui suoi sgangherati tentativi di tiri dal campo, sugli errori che mai avrebbe commesso, neppure in sonno. Lo stesso Bryant qualche settimana fa aveva cominciato a seminare tracce del suo futuro lontano dalla palla a spicchi, spiegando che in campo sapeva di fare schifo, di sentirsi uno dei peggiori della Lega. Il fisico non rispondeva più.

All’avvio della stagione, Espn – lo stesso network che ha diffuso la notizia del suo ritiro – lo piazzava al 200 esimo posto tra gli atleti in circolazione. Il fuoriclasse dei Lakers si era risentito, meditando vendetta sul parquet. Padre Tempo però pare essere più forte di lui. Avrebbe potuto seguire la traccia di altre star assolute del basket, con un ruolo di retroguardia, mentore di qualche talento dei Lakers da lanciare per la successione dinastica dopo gli anni a dominare il gioco. Come Tim Duncan ai San Antonio Spurs con LaMarcus Aldridge, oppure Kevin Garnett, tornato a Minnesota per istruire i più giovani alla legge della foresta Nba. Meno minuti, meno tiri, leadership in panchina e nello spogliatoio. Con un posto assicurato nella Hall of Fame.

Ma lui è Kobe Bryant. Non divide lo spazio vitale con nessuno. È lo stesso che sfidava in attacco e difesa Michael Jordan nell’ultima esibizione all’All Star Game di MJ. Le altre star passavano la palla all’ex Chicago Bulls, lui lo sfidava.

Un animale da basket, il sale della competizione, Una faccia, forse la migliore, dello sport. Negli anni gli ha resistito solo Shaquille O’Neal, in comune l’ego smisurato, mentre altri atleti sono stati fagocitati dalla sua durezza mentale. Alcuni sono scoppiati in lacrime davanti alle telecamere dopo i suoi rimproveri immortalati dalle tv. Per i trentenni Kobe è il Michael Jordan dell’ultima generazione. Terzo miglior marcatore di sempre, cinque anelli Nba, il most valuable player nel 2008, il mglior giocatore delle Finali nel 2009 e 2010, anche se quest’ultimo premio è stato scippato allo spagnolo Pau Gasol. E gli 81 punti messi a segno nel gennaio 2006 contro i Toronto Raptors, l’oro olimpico a Londra 2012, leader più emotivo che tecnico con Team Usa, che era già la squadra di Lebron James, l’altro fenomeno della Lega, stimato ma mai amato, ricambiato.

Ma Bryant è soprattutto il fenomeno a cui consegnare la palla per vincere a pochi secondi dal termine, il faro, la guida, la stella. Un vincente capriccioso. Phil Jackson, che con Bryant e Shaquille O’Neal ha vinto tre titoli all’inzio de Duemila, ha scritto peste e corna di Kobe in Eleven Rings, la biografia del leggendario coach che tra Chicago Bulls e i Lakers, che in carriera è andato in doppia cifra di titoli. Ma non ha mai potuto fare a meno di lui, anzi lo punzecchiava per mettere sale sulla carne viva di Bryant, incendiando la sua voglia di vincere. Shaquille O’Neal invece con il numero 24 in gialloviola ha scritto pagine di letteratura sportiva Nba negli ultimi 15 anni, tra antipatia reciproca mai nascosta, litigi veri o presunti negli spogliatoi. Con la chimica che emergeva misteriosamente sul parquet: uno contro uno di Bryant, schiacciata di Shaq, partite e titoli ai Lakers.

Al Black Mamba restano quattro mesi di basket agonistico, prima di consegnarsi alla Storia, con la esse maiuscola. E tra standing ovation e l’onore delle armi dei più grandi, ci sarà spazio per un ultimo tiro vittoria all’ultimo secondo, per una schiacciata in testa ai giganti di 2,10 metri. Perché signori, lui è Kobe Bryant.