Nell’ottobre del 1935 Walter Benjamin è in esilio a Parigi, in quel «minimo esistenziale» che però non gli impediva di raccogliere fiori, come si esprime in una frase ricordata dall’amico Scholem. Il 9 di quell’ottobre scrive a Gretel Karplus, una delle sue amiche più fidate, legata ad Adorno: «In queste ultime settimane ho potuto comprendere la caratteristica strutturale nascosta nel ’destino’ dell’arte nel XIX secolo. Ho quindi verificato su un caso esemplare la mia teoria gnoseologica – che ruota intorno al concetto molto esoterico dell’’adesso della conoscibilità’ (un concetto di cui probabilmente non ho mai parlato nemmeno con te)».

UNA SETTIMANA dopo scrive a Max Horkheimer, che con Adorno dirige l’Institut für Sozialforschung, fondamentale per lui in quegli anni indigenti: «Se il tema del libro è il destino dell’arte nel XIX secolo, questo destino ha qualcosa da dirci solo perché è racchiuso nel ticchettio di un meccanismo a orologeria che per ora solo le nostre orecchie odono scandire le ore. Ciò che intendo dire è che l’ora fatale dell’arte ha suonato per noi, e io ne ho fissato il segno in una serie di riflessioni provvisorie che portano il titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica evitando ogni riferimento diretto alla politica».
Questi due passi condensano l’arco entro cui per Benjamin si deve dispiegare l’opera, tra l’esoterico «adesso» della sua leggibilità (rivelato a Gretel ma non a Horkheimer) e il ticchettio di una bomba destinata ad esplodere (di cui Benjamin si premura subito di disinnescare, invano, la miccia politica).

INIZIA COSÌ uno dei capitoli più affascinanti e giustamente famosi della vita di Walter Benjamin: ovvero la pubblicazione, che avverrà un anno dopo sulla «Zeitschrift für Sozialforschung» de L’oeuvre d’art à l’époque de sa reproduction mécanisée nella traduzione del giovane Pierre Klossowski; ma è un testo di cui Benjamin non è contento, frutto di un doppio compromesso: con la lingua francese (in cui pure Benjamin interviene), e soprattutto con le idee politiche di Adorno e Horkheimer, che intendono rendere il testo meno «politico» e più filosofico.
Benjamin aveva in mente, appunto, una bomba a orologeria che facesse esplodere l’arte e il suo nesso con la politica e con la tecnica, descrivendo questo passaggio cruciale con «feroce allegria», cosa che i francofortesi non apprezzeranno; per questo riformulerà più volte il saggio, producendo una serie di varianti che rispecchiano non solo la sua personale storia, ma anche quella tedesca in esilio.

IL TESTO PIÙ FAMOSO di Benjamin insomma è un cantiere aperto, nonostante il suo successo e le miriadi di edizioni che affollano le librerie e le biblioteche; affrontare quel cantiere, indagare i diversi strati compositivi, i materiali usati, le modifiche, non significa fare solo della filologia – ma ripensare anche le diverse idee di sinistra di quegli anni.
Per questi motivi salutiamo con grande soddisfazione l’editore Donzelli, che ha dato alle stampe una edizione comparata, bella come al solito anche nella cura editoriale, delle cinque versioni del saggio benjaminiano (Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Edizione integrale comprensiva delle cinque stesure. A cura di Fabrizio Desideri e Marina Montanelli, pp. 175, euro 20); in realtà riedizione aggiornata di un precedente volume del 2012, sempre a cura di Fabrizio Desideri, che di versioni ne presentava tre.
La nuova edizione si è resa necessaria dopo che in Germania sono state stabilite cinque varianti del saggio. Ora queste cinque redazioni in versione italiana, grazie agli ampi studi introduttivi dei curatori, molto lucidi e brillanti per un compito invero complesso (I Modern Times di Benjamin di Fabrizio Desideri, e Breve storia del saggio di Benjamin sull’opera d’arte di Marina Montanelli), restituiscono uno scorcio invidiabilmente chiaro del laboratorio filosofico benjaminiano.

PROPRIO NEL SAGGIO di apertura di Fabrizio Desideri – storico studioso di Benjamin fin dai tempi del suo primo lavoro sul filosofo berlinese del 1980 – si ritrova quella definizione di «feroce allegria» che riassume bene il gesto filosofico e politico del Benjamin del 1935-1936; degli stessi anni in cui cioè, ricorda Desideri, l’odiato Heidegger tiene la conferenza sull’origine dell’opera d’arte ed esce Modern Times di Charlie Chaplin.
È proprio quest’ultimo (cui Benjamin aveva già dedicato un articolo nel 1929) la figura cifrata attraverso cui riconoscere l’attitudine allegra e feroce che connota il saggio; che non si immalinconisce contemplando le macerie, ma ricerca la via attraverso di esse. Un carattere distruttivo, insomma (il titolo di un breve testo di Benjamin) permea dunque tutte le versioni, costituendo uno dei motivi (il principale, verrebbe da dire) della continua fortuna di questo studio, il nesso costitutivo tra «estetizzazione» e crisi della democrazia – «la posta politica al centro del saggio», scrive Desideri.
Che poi le cinque versioni siano al centro di un complesso reticolo di relazioni biografiche, filosofiche, politiche che pongono in tensione il pensiero di Benjamin in questi anni, è quanto mostra, con altrettanto chiarezza e ricchezza di riferimenti, Marina Montanelli. L’autrice infatti – che aveva già curato insieme a Massimo Palma il volume Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte (Quodlibet, 2016), con saggi del romano Seminario permanente di Studi benjaminiani, oltre alla traduzione della prima versione del saggio; ed ha poi edito, per Mimesis, l’originale Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin – presenta al lettore un puntuale raffronto tra le diverse stesure, sottolineandone le differenze.

Differenze a volte minime, ma rilevanti, dipendenti dal contesto entro cui si sviluppano le riflessioni di Benjamin; se cioè ne stia discutendo con Adorno, con Horkheimer, con Gretel, o con Brecht. Il libro serve dunque anche a confrontare le diverse idee di sinistra del tempo: basti qui pensare al termine «fascismo» utilizzato da Benjamin, ma che Horkheimer vuole sostituire con «regimi autoritari», «Stato totalitario», o formulazioni che lo trasformino in un’etichetta politologica, e non, come per Benjamin, in una parola d’ordine militante.

UN’ALTRA QUESTIONE cruciale è quella tra gioco e apparenza, concetti che Benjamin utilizza nel suo lavoro incrociandoli con quelli di culto e di esposizione; Adorno rimprovera l’essenza non dialettica di tali polarità, da cui deriva l’impossibilità di vedere in tale dialettica delle possibilità di liberazione concreta per le masse. È la famosa questione della «ricezione distratta» del film, che Adorno contesta. Per Benjamin, invece, la fruizione dell’opera è anzitutto uno spazio percettivamente libero, uno Spielraum, uno «spazio-di-gioco» che si rivela allo stesso tempo in quanto margine d’azione. C’è insomma, nel saggio benjaminiano tutta una tensione verso il ludico – su cui Marina Montanelli ha scritto pagine stimolanti – che deriva evidentemente dal rapporto tra gioco e apparenza e che ripensa l’opera d’arte al di là del suo momento auratico.
Anche Brecht e i rappresentanti del comunismo sovietico hanno un ruolo decisivo nelle rielaborazioni benjaminiane, puro fumus ideologico per i francofortesi. Brecht condivide però paradossalmente le critiche di Adorno, vedendo nell’amico un atteggiamento troppo «mistico»; mentre i militanti più ortodossi liquidano frettolosamente il saggio. Benjamin si trova così in un reticolo di tensioni in cui al contempo vuole salvaguardare la propria autonomia e «salvare» le critiche e le proposte dalla cerchia degli amici; quello che resta – e che questa edizione mostra in maniera appassionante – è appunto un fiore raccolto ai margini del minimo esistenziale – un fiore esplosivo, bello e allegro, ma anche feroce e implacabile, come dovrebbe essere la rivoluzione.