«Da dove cominceremo?». È la domanda che Mario Lavagetto, citando il Verne dell’Isola misteriosa, rivolge ai lettori del suo ultimo libro, mentre si appresta a guidarli in quel luogo non meno infido e misterioso che è un grande classico della letteratura, in questo caso il Decameron. Ed è la domanda che si pone chiunque tenti di ricordare questo studioso eterodosso e caparbiamente inattuale – forse a sua volta singulier, come il protagonista di uno dei classici che proprio Lavagetto ci ha restituito in una smagliante traduzione, Il rosso e il nero di Stendhal.

Se ci guardiamo intorno oggi, corpi chiusi in piccole stanze, occhi inchiodati allo schermo di un pc, viene spontaneo iniziare da quello che per me, e per molti di noi, fu effettivamente l’inizio: entrare in un’aula dell’università di Bologna e trovare quel signore che ti guidava passo per passo nella vertigine della prosa di Proust, in un percorso tortuoso che sembrava moltiplicare la vertigine ma che in realtà la chiariva, le dava spazio e senso, fino al punto in cui potevi dirti: sì, ho capito; credo di aver capito.

Punti di resistenza
Niente effetti speciali, gesti istrionici o inflessioni attoriali: solo lui, il testo sul tavolo e gli studenti nell’aula, trasformata a tutti gli effetti in una «comunità interpretativa». Da lì poteva iniziare anche il resto: la tesi, un articolo, un’ipotesi di libro; poi un volume collettivo, un progetto di rivista, le imprese editoriali in cui ci coinvolgeva con straordinaria generosità intellettuale (una per tutte, nel mio caso, la cura di un volume delle opere di Svevo per i Meridiani Mondadori).

La sua non era una «scuola» nel senso classico e spesso deteriore del termine, come dimostra la varietà dei percorsi dei suoi allievi, nonché di rapporti umani fatti anche di incomprensioni e distanze, oltre che di istintive affinità. Se è stato un maestro (termine che nel suo proverbiale understatement non poteva che detestare), lo ha fatto con quello stesso, basilare carisma che esercitava anche in classe: mettere a disposizione il suo tempo, le sue idee, i suoi progetti, tutte le cose che sapeva sulla letteratura e probabilmente anche sulla vita.

Se il contesto storico non fosse incommensurabile, sarebbe bello dirlo con le parole di Calvino nella Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno: perché in quegli anni c’erano davvero «tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo».

Ovviamente c’erano le indicazioni di metodo che poi trovavamo nei suoi libri, quella «cassetta degli arnesi leggera» che raccomandava di portare con sé: «lavorare con piccoli indizi», perché sono le tracce lievi e dissimulate a farci scoprire qualcosa di più grande; decifrare i lapsus, le cicatrici e i fantasmi occultati nella superficie dei testi; inseguire la logica paradossale di una verità che parla attraverso la bugia o l’errore, salvo poi capire, come esemplarmente nella Coscienza di Zeno, che i testi letterari hanno punti di resistenza e di insondabilità come quello che Freud chiamava l’«ombelico del sogno».

Ma in generale c’era altro, insegnamenti meno codificabili in un manuale di istruzioni che dovevamo captare con quel tanto di rabdomantico che guidava le sue intuizioni. Ad esempio, capire che per fare questo mestiere serve un’idea di letteratura, che l’analisi filologica non può prescindere dalla teoria e anche da un giudizio su quello che chiamava il «formato» degli scrittori.

Lavagetto aveva una conoscenza sterminata della tradizione musicale; amava il cinema e soprattutto la pittura; ha scritto sui libretti d’opera e sui nessi tra scrittura e architettura, con un’apertura disciplinare che era già di Debenedetti e che è giunta fino alla comparatistica attuale. Eppure credeva in una specificità del linguaggio letterario e anche di una scienza della letteratura che ha praticato tenendosi alla larga da qualunque forma di scientismo.

Fino all’ultimo ha stigmatizzato l’abitudine di «servirsi della letteratura per parlare d’altro» e sapeva che gli studi letterari hanno un nemico giurato, il senso comune, anzi quella che chiamava «l’antropologia spontanea dei critici letterari», quando il discorso sulla letteratura si converte «nel più generico e improbabile dei discorsi sul mondo».

Nel suo accanito corpo a corpo con Balzac e Proust ha mostrato che vita e opera sono due universi pericolosamente contigui ma irriducibili tra loro, e che i personaggi di un libro, come ha suggerito Lacan, non sono i nostri vicini di casa. Quanto alla teoria e all’apporto dello strutturalismo, su cui oggi circolano tante sciocchezze, ci ha insegnato a usare le nozioni teoriche non come articoli di fede ma come dispositivi del pensiero, strumenti ottici che ci permettono di vedere nei testi qualcosa che altrimenti non vedremmo (un esempio per tutti, l’uso del «punto di vista» in Stanza 43). E poi c’era quella dimensione esemplare dell’insegnamento, cose che impari mentre le vedi fare: vagliare le fonti, rispettare il testo, curare l’argomentazione e lo stile, cesellare virgole e note, inibire l’enfasi («sgonfiare, sgonfiare», scriveva in margine alle tesi).

Più in generale, mostrava che la conoscenza è un’impresa senza garanzie e risultati già scritti: dunque azzardare, fare un passo indietro, girare ossessivamente intorno allo stesso punto; nel caso fallire, e la volta dopo fallire meglio.

Se di nuovo mi guardo intorno, non può sfuggirmi il conflitto inconciliabile tra tutto questo e il mondo in cui viviamo, a partire da un’università intossicata da classifiche, algoritmi, indicatori prestazionali e «risultati di apprendimento attesi», dalla quale infatti si è dimesso con dieci anni d’anticipo. Forse nel suo lavoro c’era un tratto malinconico e potenzialmente nichilista, espresso fin dal titolo del lucidissimo pamphlet del 2005, Eutanasia della critica. Eppure, quella critica di cui ha descritto il suicidio assistito è un esercizio dell’intelligenza che ha praticato fino alla fine, anche quando aveva deciso di non pubblicare più nulla, salvo poi regalarci l’ultimo libro sul Decameron, nel 2019.

Lo spiraglio che resta
In questi giorni di stupefatto dolore ho ripensato a un bellissimo saggio costruito intorno a un lapsus di Calvino che, citando una formula di Beckett, «nothing is left to tell», la distorce inconsapevolmente in «little is left to tell»: il libro non è chiuso, c’è ancora uno spiraglio, «resta comunque qualcosa da raccontare». Forse è un gesto abusivo, inutilmente consolatorio, ma oggi mi piacerebbe trasferire quella piccola epifania sull’universo di Calvino allo stesso Lavagetto, e poi a tutti noi, che rimaniamo ancora qui. Ciò che si oppone al nulla non è il tutto, ma il poco, e quel poco può essere moltissimo: a patto di raccoglierlo, e farlo durare, e dargli spazio. Little is left to tell.