Non il travestimento che è la più ovvia, la più simulatoria e perciò la più stucchevole chance sia data ad un autore ai tempi del postmodernismo o cosiddetto, ma piuttosto la dissimulazione e dunque una postura che viva nel riserbo senza tuttavia esibirlo o farsene un alibi: tale è, la dissimulazione, l’etimologia di Vittorio Sermonti, uno scrittore tra i più percettibili e cioè riconoscibili ad apertura di pagina (qualsiasi pagina della sua sconfinata poligrafia) e nel frattempo tra i più originali della nostra letteratura. Che abbia devoluto alla comprensione e diffusione dei classici larga parte della propria attività, che nel senso comune egli rimanga la voce in presa diretta di Dante e Virgilio, che si sia tanto a lungo riservato un semplice ruolo di lettore/mediatore o di critico divulgatore (e qui basti riferirsi ai testi già acquisiti nel volume Il vizio di leggere, Rizzoli 2008), tutto ciò non toglie affatto che Vittorio Sermonti, e sia detto alla spiccia, è lo scrittore che è.

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Vittorio Sermonti

Un autore che ha deliberatamente rigettato la metafisica dei generi letterari se non altro per averli attraversati tutti (basterebbe il suo romanzo di ambiente praghese L’ora tra cane e lupo, Bompiani 1980, a fare il rango di un autore), uscendone di volta in volta integro, indenne, sé stesso. Si direbbe, il suo, un perpetuo sperimentare che però sia remoto dall’ideologia sperimentalista o, ancora, l’arte di un poligrafo in cui la centrifuga del repertorio (prosa, poesia, drammaturgia, diaristica, critica) sia sempre bilanciata o ricompensata dalla stabilità di uno sguardo che è ironico in senso primordiale. Se l’ironia è infatti giusta distanza, una intelligenza e una misura così esatte da sembrare innate sono i correlativi della scrittura di Sermonti.

Lo testimonia l’auto-antologia, stralciata e ricomposta da sessant’anni di lavoro, che oggi si intitola Il vizio di scrivere (Rizzoli, pp. 651, euro 23). Si tratta, e non potrebbe essere diversamente, di un libro a plurimi epicentri. Il primo rinvia alla narrativa, dall’esordio (patrocinato da Roberto Longhi nelle edizioni di «Paragone») de La bambina Europa (’55) fino a Il tempo fra cane e lupo, il romanzo imminente sulla primavera praghese, da cui è deducibile, ad esempio, il frammento che è prossimo a un haiku sulla glaciazione sovietica: «Era cattolico, e sosteneva sempre che la chiesa è maestra. Fu anche messo alle strette; gli domandarono: ‘E il socialismo, cos’è?’ Rispose: ‘Maestro’. Non ambiva che a farsi i fatti suoi: leggere i libri di Maritain come fossero gialli; fare e dire porcherie al buio con sua moglie; ogni morte di papa, insieme a un paio di amici, fare un salto al ristorante bulgaro ed una puntatina al tabarin dell’Hotel Tatran. Gli amici dicevano che prima di diventare calvo (a venticinque anni non aveva più un capello in testa) non era così. Egli lo ammetteva, specificando che prima era molto meno felice».

A tanta e penetrante essenzialità, a una prosa così docile al suo ritmo, passibile di una lettura a voce alta, non può che corrispondere attenzione alla forma-teatro e specialmente a una parola scritta che davvero non esiste prima di farsi «voce» sulla scena: ecco (dopo la predella di una Intervista impossibile a Marco Aurelio, del ’74, per la radio) alcune tra quelle che Sermonti definisce versioni «da voce a voce», qui presenti, partiture entrambe asperrime, con la versione/riduzione in endecasillabi di un capolavoro dell’illuminismo cosmopolita, Nathan il saggio di Lessing (per lo Stabile di Torino, regia di Missiroli, 1976), e con quella in doppi settenari da ciò che il suo amico Cesare Garboli sospettava non una commedia ma la tragedia dello sciamano al potere (fosse allora un falso gesuita, oggi uno psicoanalista o un politico) nientemeno il Tartufo di Molière.

Alla dinamica che connette parola/verso/voce scenica è non a caso riservata la zona propriamente saggistica della auto-antologia, con cinque testi da La cosa poesia, in particolare L’endecasillabo del conte Vittorio Alfieri, un esquisse dicono i francesi, vale a dire un prodigio di erudizione prodigata con la leggerezza di chi abbia l’orecchio assoluto, laddove è mostrato come i versi più frantumati e slogati, gli endecasillabi per iscritto più innaturali e artificiosi della nostra letteratura, gli stessi del Filippo o di Mirra, se detti in scena o a viva voce possano invece produrre «un campo vocale della dissonanza» di sorprendente modernità. Peraltro alla poesia (e al suo rovescio musicale) si connettono non solo gli epigrammi e gli aforismi dettati da Sermonti in prima persona, i quali fanno da cerniera al volume, ma alcuni impromptu biografico-esegetici dove, ancora una volta, filologia e inventiva si danno come fossero una cosa sola: una vita di Strindberg dedotta dalla residua documentazione e dall’epistolario, un frammento (Giacomino mio salviamoci!, ’98) sul contenzioso biografico tra Leopardi e l’ineffabile suo padre Monaldo, infine la riscrittura per così dire analitica dei libretti o comunque della trama di alcuni melodrammi verdiani (Sempreverdi, 2001).

Ma il più laterale fra gli epicentri del libro, il breve spazio riservato ai Coccodrilli e dunque alle scritture meglio sospettabili di impellenza o di occasionalità, è anche quello che mette a nudo l’arte di Sermonti scrittore, in modo esplicito e frontale, insieme con la qualità (la grana) della sua intelligenza e la misura del suo stile netto, cristallino senza essere fragile. Fra i pochi altri necrologi, l’uno è dedicato a Cesare Garboli, il primo fra gli amici e i compagni di via, l’altro (e uscì sul manifesto il 18 maggio del 2003) è dedicato a Luigi Pintor nei termini di un accorato, comunque lucidissimo, esercizio di ammirazione. È come se Sermonti, senza volerlo, disponesse in retrospettiva due diverse attitudini, due modi opposti e complementari dell’essere al mondo e di vivere la letteratura.
Nel rendere loro omaggio, Sermonti chiama a sé in maniera esplicita non soltanto due figure per lui, e non solo per lui, indimenticabili ma le fissa come virtuali allegorie della letteratura medesima. Garboli è un combinato disposto di «umiltà e alterigia, visceralità e pedanteria», è la forza centrifuga di un autore che nell’altro insegue di continuo sé stesso facendosene specchio ustorio, la sua scrittura è uno spettacolo di intelligenza a cielo aperto; Pintor è viceversa l’uomo del riserbo e del silenzio tellurico, la sua parola torna sulla pagina con un moto centripeto, essa ha consistenza lapidea, meteoritica, è scritta altrettanto in silenzio e a futura memoria. Sentendole come parti integranti, la scrittura di Vittorio Sermonti ha dato testimonianza di entrambe queste attitudini.
Uno dei suoi aforismi, tradotto da Antonio Machado, dice che fare le cose bene è persino più importante che farle. Per questo gli va perdonato un titolo, Il vizio di scrivere, che vale solo come un paradosso.