«Delle mie opere, quella che mi piace di più è la Casa che ho fatto costruire a Milano per accogliervi i vecchi artisti di canto non favoriti dalla fortuna, o che non possedettero da giovani la virtù del risparmio. Poveri e cari compagni della mia vita!»: così scriveva l’ottuagenario Giuseppe Verdi, riferendosi alla Casa di riposo per musicisti eretta in piazza Piemonte, nella quale poi decise di farsi seppellire insieme alla seconda moglie Giuseppina Strepponi.

Questo capolavoro di filantropia vide la luce insieme all’ultimo capolavoro musicale di Verdi, anch’esso concepito e licenziato a Milano: lo shakespeariano Falstaff (1893), il cui librettista, Arrigo Boito, era tra le altre cose fratello di Camillo, scrittore anch’egli e architetto che progettò la Casa. Così sembra che l’allestimento dell’opera in scena (fino al 21 febbraio) alla Scala sia tornato, dopo il debutto al Festival di Salisburgo nel 2013, nella sua sede più naturale, dal momento che il regista Damiano Michieletto (con le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti, le luci di Alessandro Carletti e i video di Roland Horvath) lo ha collocato nel salone principale della Casa: «Il protagonista – spiega Michieletto – vive nella condizione della memoria, perché la sua realtà è quella della finitezza, dell’attesa della morte. E tutta la vicenda si svolge un po’ come un ricordo, un sogno, o uno scherzo: Falstaff in un attimo si vede passare davanti agli occhi tutta la vita».

Il protagonista è un ospite della Casa che sogna di ritornare in palcoscenico. La sua fantasia, «forse 10 minuti di sonnellino, magari dopo qualche bicchiere di troppo», trasfigura gli altri pensionati in personaggi favolosi e la vicenda in una farsa nostalgica. Così, in una forma intima e delicatamente ironica, prende vita il testamento di Verdi, una vanitas sorridente e a tratti corrosiva, sorretta da una partitura di inaudita complessità armonica e di programmatico understatement melodico, un medaglione sotto la cui superficie composta scorre ancora il sangue del melodramma romantico, che richiede trasporto, vitalità, ritmo.

Il direttore Zubin Mehta, in una lettura che «rimanda a Rossini e Mozart» quanto a «leggerezza», fa suo quel tratto sanguigno e lo porta in primo piano, godendo e facendoci godere sia dell’energia traboccante sia delle pause liriche della commedia, cesellando timbri senza mai perdere di vista la scansione dei tempi. Il cast è guidato da Ambrogio Maestri, che dopo il debutto nel ruolo alla Scala nel 2001 con Riccardo Muti è stato Falstaff più di 250 volte in oltre 25 teatri, esibendo come sempre una voce estesa, sfogata, rotonda e un fraseggio accattivante, dai piani ai forti, dai gravi ai falsetti.

Tutti scenicamente deliziosi e vocalmente leggeri gli altri: Carmen Giannattasio come Alice Ford, Massimo Cavalletti come Ford, Yvonne Naef come Quickly, Francesco Demuro come Fenton, Annalisa Stroppa come Meg, Giulia Semenzato come Nannetta.