Il Natale 2021 è trascorso all’insegna della corsa alla terza dose, delle code alle farmacie e dello stridente contrasto tra la libertà di fare cenoni e l’isolamento di tanti. A due anni dall’inizio della pandemia, le recenti festività natalizie segnano un punto di non ritorno nelle incerte strategie di gestione pandemica adottate dalle democrazie liberali. In Italia, in particolare, la decisione presa dal Cts il 29 dicembre – con cui, per la prima volta, si è sancita un’inversione di tendenza nel rapporto tra aumento dei casi e inasprimento delle misure di contenimento – dà il senso di un cambiamento di passo che sembra privilegiare la gestione individuale e “di mercato” della salute, rispetto a misure come il tracciamento e le chiusure, rivelatesi vincenti in contesti come la Cina (che dall’inizio della pandemia conta un bassissimo rapporto fra casi e popolazione, pari allo 0,009%). Persino sul piano della vaccinazione, unico strumento cui i governi occidentali hanno affidato l’uscita dalla pandemia, si scorge un rallentamento, con milioni di persone che attendono invano la terza dose.

Sottesa alle nuove direttive del Cts e più in generale alla linea aperturista del governo Draghi sta una scommessa, fondata su un duplice presupposto: da un lato, che Omicron si confermi una variante più leggera e, dall’altro, che la tenuta dei vaccini regga. Allo stato attuale delle conoscenze, tuttavia, queste rimangono ipotesi, come evidenziato da moltissimi epidemiologi. Si tratta, come ha recentemente argomentato da un’altra prospettiva Luca Ricolfi, di una politica di “liberismo sanitario” incompatibile con le evidenze statistiche.

Ma al di là degli aspetti puramente scientifici sulle varianti, è il dato politico che interessa mettere in evidenza, ossia l’abdicazione, nelle politiche sanitarie ed economiche dell’Occidente, a una gestione collettiva della pandemia. Al “coraggio di chiudere”, non scontato all’interno delle logiche del profitto e del consumismo (ricordiamo le decisioni prese dall’esecutivo Conte, primo governo occidentale a chiudere un intero paese affermando la priorità della salute sull’economia), non è seguito alcun ripensamento del modello sociale.

Sono emersi piuttosto tutti i limiti di una democrazia liberale che ha smarrito tanto il significato di democrazia quanto quello di libertà, sempre più declinata come arbitrio individuale, e non come tutela dei diritti e del benessere di tutti. Non è solo sul piano organizzativo, dunque, che hanno fallito le democrazie liberali di fronte alla pandemia, ma su una certa idea di regolazione, anche economica, della vita collettiva. E non è forse un caso che in Occidente le culture di sinistra non abbiano saputo formulare una vera risposta, rimanendo subalterne alle narrazioni che individuano nella frattura sì vax/no vax la matrice di ogni problema.

È piuttosto verso il cosiddetto sud globale che bisognerebbe gettare lo sguardo per scorgere alcuni orientamenti maggiormente universalistici e cooperativi. Basti notare il caso di una piccola isola ancora sotto embargo come Cuba che, grazie ad una gestione centralizzata a livello economico e sanitario, è riuscita a produrre tre vaccini contro Sars-CoV-2 integralmente pubblici, potendo vantare oggi uno dei livelli più alti al mondo di ciclo vaccinale completo in rapporto alla popolazione (l’84%, un valore quasi doppio rispetto ad altri paesi caraibici, e più alto anche di paesi altrimenti virtuosi come l’Italia o la Cina, entrambi fermi al 74%).

Se molti ricordano la generosità dei medici cubani giunti in Europa per dare aiuto nelle fasi più acute della prima ondata, pochi ancora evidenziano l’importanza del modello di cooperazione vaccinale globale sostenuto dalla Cina, che all’inizio del 2021 aveva già condiviso con altri paesi il 48% dei vaccini prodotti dalle proprie aziende pubbliche mediante esportazioni e donazioni, favorendo la libera circolazione dei brevetti, diversamente dalle scelte di accaparramento e gestione monopolistica di paesi come Usa e Regno Unito.

L’“internazionalismo vaccinale” perseguito dalla Cina e nel suo piccolo da Cuba proviene non a caso da paesi che si pensano ancora oggi eredi della tradizione postcoloniale e socialista, una vicenda che aveva tra i suoi presupposti fondamentali il controllo collettivo sulle risorse naturali e un’idea mutualistica di interdipendenza globale.

Del resto la pandemia, così come il clima, rimane una partita politica ancora aperta, per il semplice fatto che tende a travolgere ogni tentativo dei paesi occidentali di archiviarla unilateralmente e in modo sbrigativo, come il caso delle varianti giunte da lontano ha reso evidente. Da questo punto di vista, guardare a quei modelli che hanno dimostrato l’efficacia di una gestione pianificata dell’emergenza pandemica, senza pregiudizi eurocentrici e antisocialisti, può essere utile alla riconsiderazione di alcuni dei grandi temi globali che un liberismo impossibile lascia ancora irrisolti.