I transessuali potranno correre in piena libertà sulle piste di atletica già alle olimpiadi di Rio, senza la necessità di sottoporsi a un intervento chirurgico per dimostrare la loro effettiva identità sessuale. Il Comitato internazionale olimpico (Cio), massimo organismo internazionale sportivo, con una decisione senza precedenti, vuole evitare che gli atleti si sottopongano a interventi chirurgici per fini sportivi. Fino a oggi un atleta con forti caratteristiche femminili, doveva sottoporsi a un vero e proprio intervento chirurgico, prima di gareggiare tra le donne, e viceversa per le atlete dai caratteri mascolini. La decisione del Cio consente di mantenere i propri organi sessuali, come recitano le linee guida emesse dall’organo sportivo internazionale: «Coloro che vivono la transizione da maschio a femmina hanno diritto a competere come donne a determinate condizioni: una dichiarazione dell’identità di genere, che non può essere modificata con scopi di sport per quattro anni; dimostrare che il livello di testosterone non sia superiore ai 10 nanogrammi/ litro, almeno per l’anno precedente all’evento sportivo cui si intende partecipare». Identica dichiarazione per le atlete che vivono una transizione maschile. Alle olimpiadi di Londra del 2012, al centro dell’attenzione e dei pettegolezzi della stampa sportiva fu l’atleta sudafricana Caster Semenya, medaglia d’argento sugli 800 piani, già oro ai mondiali di Berlino nel 2009, oggetto di una violenta campagna di stampa sulla sua identità, tanto da essere stata costretta a sottoporsi al test sulla sessualità, per le sue caratteristiche mascoline. La commissione medica del Cio classificò il caso come pseudoermafroditismo, evidenziando la presenza di organi maschili celati, oltre a quelli femminili. La prima atleta a sottoporsi a un intervento chirurgico di riassegnazione sessuale fu la danese Lili Elbe, nata maschio con il nome di Einar Wegener. Un caso eclatante fu quello della boema Zdenka Koubkova record negli 800 piani ai mondiali femminili del 1934, che sottoposta a visita ginecologica fu definita «pseudoermafrodita mascolina» a seguito della quale venne esclusa a vita dalle Olimpiadi e le furono cancellati tutti i titoli che aveva conseguito, divenendo di fatto la prima atleta di livello internazionale a essere oggetto di una discriminazione intersessuale. Una foto di Koubkova con il corpo nudo, ritenuto a tutti gli effetti un caso clinico, finì sui libri di medicina, un atto che Koubkova subì con violenza e umiliazione. Non andò meglio a Eva Klobubowska, oro nella 4×100 alle Olimpiadi di Tokio del’64 e bronzo sui 100 metri, due anni dopo agli europei di atletica del 1966, oro nella 4×100 e medaglia d’argento nei 200 metri, fu la prima atleta olimpica a «fallire il test della femminilità» perché gli esperti del Cio le trovarono un cromosoma in più. Nonostante la commissione medica avesse precisato che quel cromosoma non costituisse nessun vantaggio per la campionessa polacca, a Eva Klobubowska furono cancellati tutti i suoi record, le fu vietato di partecipare alle Olimpiadi e a tutte le gare professionistiche di atletica, nonostante non sapesse nulla della sua condizione. Dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro, che si disputeranno dal 5 al 21 agosto, non sarà più così. Le nuove linee guida in materia di atleti transessuali, che rappresentano delle raccomandazioni per le federazioni sportive, sottolineano che «per preservare una leale competizione non è necessario richiedere modifiche anatomiche come precondizione per la partecipazione».
Mauro Valeri è autore del libro Stare ai giochi. Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni (Odradek) e da anni dirige l’Osservatorio razzista e antirazzista nel calcio(Orac): «La raccomandazione del Cio di permettere ad atleti/e transessuali di gareggiare nella categoria delle persone della loro stessa identità di genere, quella femminile nel caso sportivo più discusso dei maschi che vanno verso il femminile, senza rendere più obbligatorio l’intervento di adeguamento degli organi riproduttivi, è sicuramente una presa d’atto di un diritto che, recentemente anche in Italia è stato riconosciuto, in materia di rettificazione degli atti di stato civile (Corte di Cassazione sentenza n.15138/2015). Coloro che sostengono che in questo modo si lede la lealtà sportiva o ignorano il problema o sono in cattiva fede, curiosamente non fanno la stessa critica nel caso di atleti transessuali che da femmine vanno verso l’identità maschile. In molti paesi le persone transessuali hanno subìto e subiscono una pesantissima discriminazione sportiva, la recente raccomandazione del Cio è anche il risultato di una lotta portata avanti da decenni. Nel 1999 il Cio, alla vigilia dei Giochi di Sydney, aveva deciso di sospendere il test di femminilità per motivi scientifici ed etici, nel dicembre 2003 aveva dato la possibilità di gareggiare dopo almeno due anni dal cambio del sesso. È evidente che l’intervento chirurgico, o se vogliamo la sterilizzazione forzata, è un fattore che non incide significativamente sulla prestazione sportiva, dato che l’atleta transessuale deve comunque aver dichiarato la propria identità di genere, che non può essere modificata, per almeno 4 anni, e dimostrare di avere un determinato livello di testosterone. Pensare che un’atleta faccia tutto ciò per fare il furbo, vuol dire avere una visione bislacca dello sport».