E’ il 1856 quando Giuseppe Venanzio Sella (1823-’76) pubblica il «Plico del Fotografo», un manuale che come recita il sottotitolo insegna a «disegnare» la realtà «col mezzo della luce». Un modo di lusingare chi nella camera obscura vide un’occasione di confronto irripetibile con il mondo dell’arte. Non a caso, come evidenziò Heinrich Schwarz, Nadar fu considerato il «Tiziano del ritratto fotografico» e Daguerre un «incisore pari a Rembrandt».
Eppure il consenso nei confronti della fotografia non era così assoluto. Baudelaire la giudicava «il rifugio di tutti i pittori mancati», anzi un’invenzione dannosa che doveva rimanere l’«ancella delle scienze e delle arti» e che solo l’«idiozia della massa» riusciva a confondere con le tecniche e le forme dell’arte autentica.
Sella, da accorto industriale biellese qual era, studioso – come il fratello Quintino – di scienza, intuì da subito le conseguenze dell’invenzione di Niepce che avrebbe blandito gli artisti e i loro ideali estetici. Con molte probabilità condivideva la tesi del poeta francese più di quanto si immagina.
Nell’estate del 1851 si recò a Parigi in viaggio di nozze con la moglie Clementina Mosca Riatel, e tra un incontro e l’altro con il chimico Michel Eugène Chevreul, il fotografo Henri Pault e il dagherrotipista veneziano Federico Martens (a lui dedicherà la prima edizione del «Plico»), di certo verificò, in gallerie e atelier, quanto fossero convergenti le tendenze dell’arte realista e naturalista con l’immagine «singolare e tuttavia vera» della fotografia.
Sella avrà osservato con ammirazione i pittori francesi, anche se le sue curiosità erano rivolte principalmente alla chimica fotografica e alla veridicità della nuova invenzione. Perciò egli tentò come altri di soddisfare, nella fedele restituzione del reale, ciò che Proust chiama il «doppiamente affascinante» della fotografia: da un lato ciò che «ci sorprende e ci fa uscire dalle nostre abitudini», dall’altro ciò che «ci fa rientrare in noi stessi ricordandoci un’impressione».
Oggi possiamo solo figurarci questa particolare dimensione – che nel giro di pochi decenni sovvertì un’«abitudine» nel guardare – per comprendere la rivoluzione che la fotografia causò, «sostituendosi al mondo come sua testimonianza diretta» (Berger). Questo profondo sconvolgimento lo determinarono l’uso della camera oscura e i processi chimici e meccanici a essa collegati, verso i quali Sella mostrò al loro apparire un’irresistibile attrazione.
La mostra alla Fondazione Sella (fino al prossimo 2 febbraio) dal titolo L’altra macchina. Un industriale biellese e l’affermazione della fotografia in Italia spiega questo periodo aurorale della fotografia attraverso i contributi dell’imprenditore tessile illuminato, lo studioso della chimica applicata e del fotografo curioso, quale fu Venanzio Sella, in stretta intesa con il fratello Quintino: un protagonista assoluto del dibattito europeo sulla fotografia, intorno al quale – come scrive Pierangelo Cavanna, curatore della mostra – «l’avvio di un processo di storicizzazione ancora prosegue».
Ordinata al piano terra della fabbrica, il Lanificio Maurizio Sella in funzione dal 1838 – divenuto, dal 1991, sede del ricco archivio della famiglia Sella di Mosso e centro di attività culturali e di formazione –, l’esposizione si snoda secondo il doppio registro della memoria industriale, familiare e collettiva e quello della testimonianza dell’impegno di Venanzio verso la divulgazione scientifica e la sperimentazione.
Vale per lui quanto Zola disse del romanziere: che come «lo scienziato, deve essere insieme osservatore e sperimentatore». Perché è indubbio che Sella fu anche uomo di scienza, ma non diversamente dall’uomo di lettere egli pensò «l’arte come una riproduzione oggettiva del reale governata dalle leggi della natura». Da osservatore si rivolse alla ritrattistica donandoci, tra gli anni 1858-’65, una prova eccellente di quello che sarà in seguito qualificato come l’«uso sociale della fotografia»: ritratti maschili, gruppi di famiglia, la moglie Clementina Sella, la sorella Maria, il figlio Carlo. Da sperimentatore, invece, ci consegna una serie di verifiche su albumina e su collodio e prima ancora (1853) su carta salata, come rilevano i «ritratti» urbani di Biella, Torino e Parigi.
Tutti questi processi sono illustrati minuziosamente nelle sue guide teoriche e pratiche delle quali il «Plico» è magnum opus, compreso il personale metodo per determinare gli acidi, l’alcali e i sali nelle loro soluzioni. In quest’ambito di esperimenti chimico-ottici si collocano i tre originali calotipi di William Henry Fox Talbot che, come scrisse Marina Miraglia, fanno di Sella un «collezionista ante litteram della fotografia» (peccato non compaiano nel catalogo della mostra).
Non sarebbe stato superfluo, nel corso dell’esposizione, richiamare il gruppo dei fotografi biellesi che in qualche modo possono essere considerati se non allievi diretti, dei degni prosecutori della sua opera: Vittorio Besso – prolifico fotografo di paesaggi – ed Emilio Gallo, ma in particolare Vittorio Sella, figlio di Venanzio, alpinista, esploratore e fotografo eccelso di ambienti alpini. Come Venanzio essi non sconfinarono «nella sfera dell’impalpabile e dell’immaginario», ma si dedicarono a produrre quel «materiale esatto» della realtà che per Baudelaire è la sola ragione per cui i fotografi meritano «gratitudine e lode».