La produzione per il mercato internazionale e per i grandi brand, costantemente alla ricerca di luoghi nei quali produrre a basso costo, è quanto unisce oggi – e da tempo – Prato al Rana Plaza in Bangladesh, a Kampong Speu in Cambogia o a un qualsiasi distretto produttivo tessile e non solo (basti pensare alla Foxconn) cinese. O ancora, sono le ricette neoliberiste che hanno creato quella galassia di «formiche», «topi», «dannati», «fantasmi»: tutti termini poco rassicuranti per esprimere e descrivere contemporanee categorie umane di lavoratori, che abbiamo solitamente associato alle realtà produttive dei paesi in via di sviluppo e quasi sempre negli ultimi tempi specificamente asiatiche.

Dove siamo periodicamente abituati ad assistere ai crolli dei tetti, a incendi, a centinaia di morti, a stragi; luoghi di lavoro dai quali le persone non possono sfuggire perché rinchiuse in veri e propri dormitori- trappola, dove non esistono diritti; posti nei quali l’umanità rimane fuori e può essere raggiunta, talvolta, solo grazie agli strumenti che vengono prodotti all’interno, come nel caso degli smartphone per i lavoratori cinesi. Sono gli Stati delle fabbriche-materasso, come vengono chiamate, dove si dorme, si vive e si lavora nello stesso luogo. Poco importano dunque le condizioni di lavoro, di sicurezza, l’età, i salari di chi lavora (e parliamo di pochi dollari, o euro) o gli straordinari mai pagati: l’importante è che le consegne vengano rispettate e che il materiale sia buono e pronto per il mercato.
E l’elemento di novità – si fa per dire – che arriva da Prato è che la «produzione asiatica» rinomata per le capacità, la precisione e per la possibilità – specie un tempo – di trovare in loco le materie prime, si è ormai spostata nel primo mondo. È il paradosso della globalizzazione nella sua attuale versione neoliberista: anziché portare i diritti dove non ci sono, si portano le condizioni misere di lavoro, dove ci si aspetterebbe di trovare dei diritti, ancora prima dei controlli che in questi giorni tutti invocano a Prato, come se la presenza di un ipotetico esercito a presidiare la zona, potesse risolvere il dilemma.

Il mercato cerca zone franche, lo fa in continuazione, senza requie, abile a scovare i luoghi in cui abbassare i costi e aumentare i profitti: così accade che non è più solo la Cina a contenere insieme il primo e il terzo mondo, ma è direttamente il terzo mondo che arriva in casa nostra. Le modalità sono le stesse, conosciute, talvolta nascoste o recuperate solo in seguito a tragedie immani. Deve morire qualcuno, per ricordarsi a chi era destinata la produzione, marche conosciute che costituiscono il nostro life style, per sottolineare la logica che sta dietro la ricerca di vite da consumare.

Quando è giunta la notizia dei tragici fatti di Prato, su Weixin, un’applicazione per cellulare simile a Whatsapp, molto di moda in Cina, ho pubblicato la notizia ripresa dal China Daily ai contatti cinesi. Qualcuno si è interessato, qualcun altro ha avuto un lampo di cinico sarcasmo: «non siete l’Occidente dei diritti?», ha chiesto. E’ il mondo – talvolta capovolto – dalle logiche attuali di produzione.

Il mercato è mondiale e se gli Stati Uniti attraverso il reshoring nella manifattura, stanno riportando a casa la produzione di alcuni brand ritenuti fondamentali per la ripresa dell’attualmente scalcinato sogno americano, la ricerca dei costi più bassi avviene senza confini geografici. Allora, se la Cina comincia a non essere più la meta preferita di chi cerca i costi più bassi, nonostante la ormai provata bravura dei suoi lavoratori, perché anche lì sono cominciati a salire i salari, rimangono sempre altre zone: il Bangladesh, la Cambogia, il Vietnam e l’Indonesia, ad esempio, oppure enclave senza diritti e cittadinanza, come sono quelle di Prato. Del resto l’industriosità dei cinesi e degli asiatici – in particolare – è nota. E’ quella che Arrighi (in Capitalismo e (dis)ordine mondiale, Manifestolibri) ha chiamato la «rivoluzione industriosa del sud est asiatico» che consentì alle istituzioni in Cina di assorbire il lavoro delle unità familiari all’interno di attività che contrariamente alla rivoluzione industriale europea, premiavano la molteplicità dei ruoli, anziché la specializzazione: le capacità manageriali, con un generale background di abilità tecnica, erano attivamente sviluppate a livello familiare. Inoltre come spiega Kaorou Sugihara, «nonostante l’enorme numero di operai nelle fabbriche cinesi, i ranghi dei dirigenti che li controllavano erano esigui per gli standard occidentali, un’indicazione di quanto gli operai fossero incredibilmente capaci di auto-gestirsi» (in The European Miracle and the East Asian Miracle. Towards a New Global Economic History). Questo prima che le Riforme di Deng portassero la produzione capitalistica anche in Cina.

Per comprendere poi come mutano i mercati e come i mondi si rincorrano, mentre a Prato si muore di lavoro, schiacciati in luoghi disumani, qualche mese fa in Cina un ragazzo di 24 anni è morto di arresto cardiaco sul posto di lavoro, dopo aver fatto straordinari per un mese di fila. In precedenza – nel maggio del 2013 – una ong americana che si occupa di lavoro in Cina, la China Labour Watch, aveva comunicato tre nuovi suicidi alla Foxconn già nota per la catena di suicidi del 2010. La Cina sta ormai per raggiungere un nuovo lugubre primato: sta diventando il primo paese per morte da stress. La Xinhua, l’agenzia stampa governativa, ha pubblicato uno studio che mette la Cina al primo posto per stress da lavoro tra tutti i paesi del mondo. A morire a Pechino e dintorni, però, non sono i «lavoratori migranti» simbolo del lavoro duro su cui si sono arricchiti i contemporanei miliardari cinesi, bensì i novelli aspiranti al ceto medio, quello strato sociale in continua ascesa che stando ai programmi governativi dovrebbe costituire la salvezza dello stato cinese e dell’economia mondiale. Questi novelli malati di stress, altro non sono che i potenziali acquirenti dei capi di vestiario prodotti a Prato.