Una volta assorbito lo shock dei barbari attentati di Parigi, bisognerà cominciare a valutarne le conseguenze nel mondo globale. Voci tutt’altro che disinteressate già si affastellano a difesa dell’occidente «assediato», di unioni sacre che prescindono totalmente da un’analisi dei rapporti tra centro e periferia nel sistema-mondo nascente sulle ceneri della Guerra Fredda. La transizione verso un nuovo ordine egemonico, infatti, non può esser compresa senza tener conto della crisi economica e conseguente ridefinizione del ruolo dello Stato-nazione.

Un processo che si manifesta sia nelle relazioni internazionali, attraverso l’offensiva nei confronti delle economie emergenti e la creazione di entità sovranazionali a cui sono in parte demandate funzioni storicamente assunte dagli Stati; sia sul piano interno, attraverso la ridefinizione dello spazio politico democratico, sul terreno cioè della lotta egemonica.

Lo Stato-nazione decimononico prende forma sotto l’impulso della borghesia in ascesa come classe dirigente. Tuttavia, già nel corso di svolgimento di quel laboratorio politico che fu la Rivoluzione francese, si potevano intravedere alcune prefigurazioni di scenari avvenire: lo Stato borghese, ancora in formazione, già era innervato dalle spinte dal basso che nei due secoli successivi ne avrebbero mutato in profondità le caratteristiche, ben al di là dei desiderata del blocco storico che lo stava tenendo a battesimo.

Nel corso del “lungo Novecento”, questo processo dialettico si spingerà ai limiti delle capacità di tenuta del sistema, all’interno dei singoli Stati come nelle relazioni tra i centri mondiali dell’accumulazione capitalistica e le periferie. Da un lato il nascere ed il consolidarsi del movimento operaio favorirà la ridefinizione della natura dello Stato, da strumento di accentramento di potere nelle mani delle classi dominanti, a spazio politico all’interno del quale quello stesso potere può essere conteso dalle classi subalterne. Dall’altro, con le rivoluzioni russa e cinese ed il processo di decolonizzazione, irromperanno entità statuali nuove – non previste dall’ordine statual-borghese Ottocentesco – destinate ad acquisire un crescente potere di interdizione nei confronti degli interessi della metropoli e delle esigenze dell’accumulazione capitalistica.

Gli anni Settanta del Novecento rappresentano il culmine di questo processo: le conquiste sociali del movimento operaio arrivano a mettere in crisi il capitalismo nel cuore stesso della sua accumulazione; mentre la sconfitta statunitense in Vietnam sancisce l’affermazione definitiva delle potenzialità dello Stato post-coloniale. Una “tempesta perfetta”.

Dopo un periodo di incertezza e ripiegamento, segnato dall’intensificazione del processo di trans-nazionalizzazione del capitale e dalle prime modificazioni delle funzioni dello Stato-nazione, la metropoli capitalista rilancia, ridefinendola, la portata della propria azione, approfittando di tre fattori tra loro fortemente interdipendenti: il crollo dell’Urss; la riscossa proprietaria nelle metropoli; la crisi di legittimità di alcuni gruppi dirigenti post-coloniali.

Lo Stato-nazione comincia a sganciarsi dalle funzioni «sociali» di cui si era dotato in risposta alla sfida del movimento operaio; mentre l’Europa industrializzata è investita da una crescente manovra di «esportazione della legittimità» dagli organismi partecipati dal popolo a quelli tecnocratici sovra-nazionali, cui vengono trasferite talune funzioni e prerogative dello Stato-nazione, con relative nuove gerarchie nella divisione continentale del lavoro. Contestualmente, si rafforza la dimensione coercitiva dello Stato, in termini di controllo sociale e di egemonia.

Col crollo del sistema internazionale della guerra fredda si inaugura, nei rapporti col «terzo mondo», una stagione ininterrotta di guerre e aggressioni: dall’Afghanistan alla ex-Jugoslavia, dalla Somalia all’Iraq, dalla Libia alla Siria, l’occidente interviene sugli anelli deboli per disgregare il sistema di Stati sorto dal binomio rivoluzione/decolonizzazione. Al di là della retorica, non c’è nessuna volontà di implementare la democrazia, né semplicemente di «ricostruire»: dopo le distruzioni ed i bombardamenti, le popolazioni vengono abbandonate al caos e alla disperazione, e ci si limita a militarizzare parziali enclaves attorno alle zone strategiche dal punto di vista geopolitico e dell’accaparramento delle risorse naturali.

In questo sfondo possono collocarsi gli attentati a Parigi. L’ideologia fondamentalista, col suo portato cosmopolita e profondamente gerarchico, risulta, più che un nemico, un concorrente simmetrico nell’opera di destabilizzazione dello Stato post-coloniale e delle sue promesse laiche di emancipazione sociale e nazionale. Destabilizzazione su cui ha certamente inciso l’estinzione del campo socialista, attorno al quale a varie latitudini avevano gravitato gli Stati post-coloniali.

All’indubbio, e progressivamente sempre più marcato, logoramento delle leadership nazionali, si sono poi combinati gli effetti della crisi. Più in particolare quella alimentare, vero detonatore delle rivolte sprigionatesi nell’area del Maghreb e primo oggetto delle rivendicazioni popolari. In questo complesso processo, condizionato da una geometria plurale di interessi di potenza, sempre più pesante è risultato il peso dell’Islam politico: una galassia di opzioni, sensibilità e strategie, in larga parte confliggenti tra loro; ma abbracciate da larghissime fasce di subalterni di quella regione del mondo, orfane di strategie politiche alternative.

Ed è qui che serve, quindi, la sinistra: per combattere la «battaglia delle idee», contendendo l’egemonia che si va costruendo nell’interpretazione dei fatti e delle sue origini; e per offrire un terreno di mobilitazione conseguente. Demistificare gli argomenti del presunto «scontro di civiltà», della reductio ad unum dell’Islam, evidenziandone limiti e contraddizioni, primi tra i quali l’accecante eurocentrismo, consente infatti di cogliere l’essenziale della narrazione che si va facendo strada: la necessità della guerra.

L’obiettivo verso cui, non a caso, è proteso, quasi unanimemente, l’apparato egemonico occidentale. Indubitabile è in questo senso il cambio di passo avvenuto dopo gli attentati a Parigi.

Dietro le dispute sul «noi» e «loro», su cosa è «democrazia», sui limiti della satira, vi è, infatti, la stringente e concreta urgenza della crisi: l’elemento politico che più di ogni altro solca le relazioni internazionali del nostro tempo. Non coglierne il nesso, ancorché potenziale, con l’uso politico che l’occidente può fare degli attentati di Parigi, e quindi con la guerra, la più potente forma di distruzione di capitale eccedente, rischia, infatti, di essere esiziale per la sinistra.