Quindici giorni di cessate il fuoco è la nuova proposta del fronte anti-Houthi: per portare aiuto alla popolazione civile yemenita, ridotta alla fame, il presidente auto-esiliato Hadi ha mosso ieri un’originale idea di tregua. Con una precondizione non negoziabile: il movimento ribelle Houthi deve ritirarsi da città e province occupate e abbandonare le sedi del governo prese in questi mesi di guerra civile.

La tregua di due settimane sarà avviata «in concomitanza con il ritiro delle milizie Houthi e [dell’ex presidente] Saleh», ha spiegato Hadi aggiungendo che a garantire saranno osservatori Onu, ai quali spetterà la presa in consegna delle armi in mano ai ribelli.
Non un cessate il fuoco bilaterale. La proposta di Hadi è un diktat unilaterale: la resa Houthi. Il presidente l’ha riferita all’inviato Onu per lo Yemen Ismail Cheikh Ahmed che ha sua volta la girerà alla leadership Houthi. Le speranze che venga accettata sono ovviamente nulle, ma Hadi punta proprio a questo: delegittimare ulteriormente le richieste di maggiore inclusione mosse da anni dagli Houthi e che hanno portato allo scoppio del conflitto.

Il presidente – le cui azioni politiche sono magistralmente dettate dall’Arabia saudita – si fa forte delle sconfitte rimediate dagli sciiti a sud e dell’estrema violenza dei bombardamenti sauditi a Taiz, da settimane target dei jet del re saudita Salman. Il bollettino di guerra è impietoso: dal cielo di Taiz sta piovendo morte sui civili intrappolati. Una carneficina firmata Riyadh: tra venerdì e ieri, secondo la Croce Rossa, 80 civili sono rimasti uccisi in 17 bombardamenti in zone residenziali, tra loro 17 membri della stessa famiglia. Ma, aggiungono funzionari yemeniti, potrebbero esserci molti corpi ancora sotto le macerie. Sale così a 133 il numero di civili uccisi in tre giorni, oltre 900 i feriti.

Continua a bruciare anche Aden, città costiera strappata agli Houthi dal non troppo bizzarro fronte formato da forze governative, sauditi, emiratini e miliziani di al Qaeda. Ma come spesso accaduto in passato, gli alleati di oggi sono i nemici di domani: ieri, nel quartiere di Tawahi, una serie di bombe è esplosa fuori da una sede dei servizi di intelligence yemeniti. Nessuna vittima e nessuna rivendicazione, ma fonti locali attribuiscono la responsabilità ai qaedisti: miliziani sono stati visti abbandonare la zona dopo l’esplosione e il gruppo ha assunto il controllo di aree intorno al porto, il centrale quartiere di Crater e la zona commerciale. Pattuglie di al Qaeda girano per le strade, sventolando bandiere nere.

Al Qaeda ha saputo magistralmente approfittare del caos yemenita, impossessandosi quasi interamente della storica provincia di Hadramaut, a est del paese. E non intende arretrare. L’ennesima minaccia ad un paese fatto a pezzi, nel quale le emergenze si accavallano: nei giorni scorsi le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme carestia. Con 20 milioni di persone, l’80% della popolazione, senza accesso al cibo in un paese che importa oltre il 90% dei prodotti alimentari, l’World Food Programme è stato chiaro: se non entrano aiuti umanitari subito, sarà il caos. Lo è già: nel 2015 un popolo muore di fame non per un disastro naturale, ma per una guerra dettata da interessi politici.

Secondo il Wfp, la combinazione di mancanza di cibo, raddoppio del prezzo dei pochi prodotti disponibili, scarso accesso a acqua potabile e riduzione delle quantità di carburante sono «l’alba di una tempesta perfetta». Non c’è cibo perché i sauditi non lo fanno entrare da mesi. Una carestia innaturale, politica e per questo indecente.