È fresco di stampa il volume Artiste della critica, Corraini editore, curato da Maura Pozzati, che intende (così come viene ribadito) magnificare «dodici donne appassionate d’arte e artiste della parola» e che in esso si susseguono: Palma Bucarelli trattata da Rachele Ferrario, Lorenza Trucchi da Laura Cherubini, Mirella Bentivoglio da Arianna Di Genova, Lara-Vinca Masini da Laura Lombardi, Marisa Volpi da Antonella Sbrilli, Carla Lonzi da Martina Corgnati, Lea Vergine da Francesca Alfano Miglietti, Ida Gianelli da Maura Pozzati, Adalgisa Lugli da Elisabetta Longari, Jole de Sanna da Cristina Casero,Francesca Alinovi da Fabiola Naldi e Gabriella Belli da Lucilla Meloni.
L’intento del volume è quello di ripercorrere in sintesi le figure del pensiero critico in Italia negli ultimi decenni seguendo il paradigma del gender e scandagliando il prisma della differenza sessuale su figure di eterogeneo spessore e distinta attitudine.

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Francesca Alinovi

Francesca Alinovi e Lea Vergine, per esempio, lasciano dei solchi indelebili nella critica d’arte contemporanea attraverso testi quasi da culto. Ognuna delle due, epidermicamente poco incline a conformismi carrieristici, sottolinea il proprio desiderio di indipendenza intellettiva, un atteggiamento all’opposto della spinta istituzionalizzatrice che indirizza oggi le scelte della nuova generazione.

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Mirella Bentivoglio

La curatrice del volume, sia pur nella concisa introduzione, elenca i criteri di selezione delle figure critiche e i dubbi e le interrogazioni che l’hanno spinta a concepire il volume. Non è solo la piattezza di un panorama editoriale nazionale che certo non brilla per testi e saggi critici d’arte (salvo qualche rara eccezione) bensì lo strabismo di genere con cui la storia dell’arte viene narrata e rinarrata nei secoli dei secoli. Al di là di ogni logica post-femminista, il riscontro tra la reale storia dell’arte del Novecento e quella che superficialmente viene reiterata nei manuali comporta errori di valutazione.

Per certi versi Artiste della critica è un testo di riappropriazione del ruolo. Figure centrali nella sperimentazione come Alinovi (quasi sempre «cancellata» nella ricerca negli anni Ottanta e «condannata» a un ruolo di borderline) è sintomatico di una noiosa pedanteria e poca lungimiranza valutativa. Era proprio Michel Foucault che ricordava quanto l’archeologia in cui la storia dell’arte si è auto-preservata, procrastina un progetto conservativo e conservatore, cristallizzato in un conformismo egemonico. E, lo studio dell’arte contemporanea, centrale nelle Università e Accademie di belle arti, attraverso materiali didattici, è ancora carico di una memoria polverosa piena di assenze e carenze.

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Palma Bucarelli

I dodici ritratti, empaticamente redatti dalle altrettante storiche e critiche d’arte, tendono a comporre un puzzle di biografie particolari, ognuna delle quali contestualizza l’epoca e la sfera umana del racconto. Soprattutto risalta il côté emancipatorio delle varie personalità, inglobate ognuna in situazioni, territori, spazi, affezioni dissimili, spesso in netta antitesi con la morale corrente, sovente incompatibile con i pregiudizi e i tabù dell’epoca.

L’affermazione del proprio ruolo, all’interno del sistema dell’arte, era inevitabilmente un terreno di conquista identitaria. Vale così per Palma Bucarelli, pioniera di una «rivoluzione museale», presso la Galleria Nazionale d’arte moderna di Roma che guidò dal 1942 al ’75; per Lea Vergine, autrice di Body art e storie simili e curatrice della mostra L’altra metà dell’avanguardia, per l’anticonformista Francesca Alinovi autrice di L’Arte mia, per Carla Lonzi teorica della «differenza», Mirella Bentivoglio per la sua forma poetica e poi Lara Vinca Masina, Gabriella Belli, Lorenza Trucchi e le altre.
Bisognerebbe riconsiderare l’accezione di critica d’arte, ossia quella attività del pensiero che connette l’arte all’essere al mondo e dunque, intercettarne le fila tra le pieghe del discorso letterario e espositivo. In questa epoca di transizione e di sospensione riflessiva varrebbe la pena ridiscutere la sua necessità…

Il volume ha una buona veste grafica e al suo interno può ricordare, vagamente e subliminalmente, il cult di Lucy Lippard Six Years: The Dematerialization of the Art Object. L’unico appunto che si può fare è semmai la circoscrizione dell’universo femminile in se stesso che, se da un lato raddoppia la vitalità del gender, dall’altro induce a una separatezza che ancora ci inchioda in un mondo a parte.