Per leggere questo articolo impiegherete tre minuti. Un lasso di tempo durante il quale, in Italia, 360 mq di suolo verranno persi per sempre, coperti da cemento, asfalto o altri materiali. Nel nostro paese – dati Ispra 2020 – il consumo di suolo avanza al ritmo di 2 mq al secondo.

A farne le spese sono soprattutto i terreni agricoli fertili. Una precisazione: i suoli non sono tutti uguali. Le zone boschive sono diverse dai campi coltivati, che a loro volta sono diversi dalle aree verdi delle città. Diversa è infatti la loro composizione, cioè la percentuale di sostanza organica (chiamata anche humus) contenuta. E’ la percentuale di humus nel suolo a stabilire la fertilità del terreno. L’humus non è qualcosa di innato: si forma dalla degradazione della roccia madre (il substrato del terreno) per effetto di reazioni chimiche e agenti fisici come il gelo e le precipitazioni, ma soprattutto grazie all’attività biologica di microflora e microfauna che abitano il suolo: «Lombrichi, vermi, funghi, batteri, miliardi di microrganismi che contribuiscono a degradare le sostanze vegetali, come le foglie che, in autunno, cadono dagli alberi» spiega Loredana Pietroniro, agronoma e membro del Consiglio nazionale di Slow Food. «La formazione del suolo è un processo lunghissimo e per ottenere uno spessore 5 centimetri di terreno fertile occorrono circa mille anni. Quando viene consumato è irrecuperabile». Purtroppo in Italia le proposte di legge per arrestare il consumo si susseguono dal 2011, ma si arenano in uno dei due rami del Parlamento.

Non è però soltanto il cemento a uccidere il suolo: anche l’agricoltura ha responsabilità notevoli. «La follia dell’uomo è stata pretendere di coltivare senza rispettare il lento ciclo della natura, senza preoccuparsi cioè di rigenerare il terreno ad esempio con la rotazione colturale – continua Pietroniro – I terreni si sono impoveriti e per risolvere il problema si è fatto ricorso a fertilizzanti. Ma il terreno non è un contenitore sterile a cui aggiungere concimi chimici».

Secondo Slow Food, la soluzione agricola al progressivo impoverimento dei suoli si chiama agroecologia, cioè l’approccio che limita le monocolture e l’uso di prodotti chimici di sintesi. Non può, insomma, essere soltanto la chimica a salvare il terreno, e a certificarlo è la scienza: a fine marzo, su Nature Geoscience, è apparsa una ricerca dell’università di Sidney secondo cui «il 64% dei terreni agricoli del mondo è a rischio di inquinamento da pesticidi» e il 31% – la maggior parte dei terreni europei – risulta «ad alto rischio».

Che fare, allora? La Commissione europea, che ha annunciato una revisione della sua Strategia per il suolo (ferma al 2006) ha aperto una consultazione pubblica per raccogliere le opinioni dei cittadini. L’obiettivo dell’Ue, si legge, è «raggiungere entro il 2030 la neutralità in termini di degrado del suolo, vale a dire rendere nuovamente sano tanto suolo quanto ne è stato degradato dall’attività umana». Un’ambizione, sostiene Pietroniro, insufficiente: «Il terreno fertile è una risorsa non rinnovabile. Se viene consumato, è perso: bisogna arrestare il consumo di suolo».