Giunto alla sua decima edizione, il Napoli Teatro Festival trova sotto la nuova direzione di Ruggero Cappuccio, coerenza e ricchezza di proposte inusuali, e una risposta del pubblico davvero generosa e interessata. I titoli sono molti ogni sera, così come le file di chi aspetta di conquistare un posto in sala. La divisione degli spettacoli per tematiche, e quindi per spazi differenziati, sembra moltiplicare gli spettatori e i loro interessi. È una visione rassicurante, abbastanza rara in Italia, che restituisce al teatro la sua funzione culturale primaria, tra reinvenzione di una tradizione da conoscere e apertura a linguaggi contemporanei che di quello stesso patrimonio si fanno forza, traendone suggestioni nuove.

Il teatro Bellini, per fare solo un esempio, è stato capace di trasformarsi letteralmente per una settimana in una sorta di Globe shakespeariano, dove sei capolavori del Bardo hanno trovato una propria rinnovata veste ad opera di sei registi importanti. E quasi a «malizioso» sviluppo di quel ciclo, è arrivata poi una riscrittura dirompente del classicissimo Otello, che senza rinunciare alla geometria della drammaturgia originale, opera uno slittamento progressivo verso icone dei più fasulli valori contemporanei, colti nel momento della loro incubazione. Luciano Saltarelli, attore napoletano tra i più espressivi e significativi (solo l’hanno scorso aveva indossato i panni di un eduardiano Dolore sotto chiave, rendendolo esplosivo), qui è oltre che Jago protagonista, riduttore e regista di Quel gran pezzo di Desdemona, che fin dal titolo occhieggia ai porno soft nazionali di qualche decennio fa.

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Il teorema shakespeariano della gelosia e del potere, diviene così semplicemente la griglia privilegiata attraverso cui vedere i densi anni 70 di una Milano ancora non tutta trangugiata: gli operai immigrati e le esplosioni velenose del «terrorismo anarchico», la liberalizzazione dei costumi e il nuovo carrierismo nelle pieghe dell’assestamento neocapitalista. Tutto nel rispetto però dei tempi e delle regole della commedia, volgare quanto crudele, candida quanto pensosa, ridicola e divertente. Desdemona è così la figlia del Brambilla piccolo imprenditore, Otello un Moro grande e ingenuo, Jago il perfido collega frustrato, Cassiolo un vanesio bello e impossibile. 5 attori che fanno per 20 (oltre a Saltarelli, Rebecca Furfaro, Giovanna Giuliani, Luca Sangiovanni e Giampiero Schiano, bravissimi), per una «commediaccia» cui Pasquale Mari conferisce luci e ombre, mentre Lino Fiorito, col suo tratto geniale dietro un’apparente semplicità, anima col suo segno scene e costumi.

Ma dell’intero festival napoletano, è una sorta di summa il nuovo exploit di Enzo Moscato, tessitore paziente e padre ispiratore di tutta la nuova scena, non solo partenopea. La sua impresa è questa volta davvero «ciclopica», perché parte da un grande classico dell’intera letteratura mondiale moderna, quello Spoon River di Masters, che ha commosso e fatto sognare intere generazioni. Presentata dall’autore, con la sua innata modestia, come semplice «traduzione» del capolavoro americano iniziata per pura passione personale più di vent’anni fa, questo Raccogliere & Bruciare andato in scena alla Galleria Toledo, è un vero kolossal, che fruga nella polvere tombale di Napoli (dopo un’ennesima, temuta ma anche in qualche modo liberatoria, eruzione del Vesuvio), per distillarne l’anima e l’ambizione, la grandezza e il fango, la felicità e l’orrore. Come Moscato ha fatto tante volte, certo, e il ricordo va in particolare a quella apparizione tellurica che più di una ventina di anni fa fu Rasoi, prima in scena poi film col tandem Martone-Servillo. Qui però c’è davvero il sapore (e il gusto) del kolossal, come indica il sottotitolo dello spettacolo Ingresso a Spentaluce, che sarebbe il corpo proteiforme, e incontenibile da alcuna fossa, in cui si è trasformata l’antica Neapolis greca.

La traduzione di Moscato insomma tradisce volutamente la poetica ricognizione di Masters nel cimitero della cittadina dell’Illinois, per allargarsi con eguale sentimento, sempre fascinoso ma spesso orrorifico, alla neoplasia incontrollabile di una città e dei suoi abitanti, l’una e gli altri incapaci e impotenti a «morire», in un contrasto ancor più acido suggerito dalle croci (contraddistinte da numeri di ardua classificazione), di cui Mimmo Palladino ha disseminato la scena (luci di Cesare Accetta). Raccogliere & Bruciare suona quindi come un grande oratorio, propiziatorio senza soverchie illusioni, intonato da questa popolazione di monatti da cui emergono ogni momento collettive eccitazioni e singole, quasi personalizzate, infelicità.

E danno corpo a questa selva di personaggi, mitologici o neorealisti, una ventina di interpreti eccellenti, in un ensemble che mescola con pari dignità compagni storici dell’artista, (Enzo Curcione, Cristina Donadio, Imma Villa, Enza Di Blasio, Vincenza Modica e tanti altri) alle nuove generazioni di casa Moscato.

In questo itinerario complesso che prende corpo napoletano da 80 frammenti sui 263 dello Spoon River originale, è fondamentale la musica, quasi un lenitivo per l’orecchio, ma anche un altro orizzonte, non solo memoria ma già al di là. Alternando i Pink Floyd a Pompei con George Gershwin, Concetta Barra a De Gregori, strappacori napoletani a una corrosiva Giovinezza fascista in versione giapponese, Carlo Buti a molta Joan Baez (anche in versione Dietrich). L’aldilà è già qui, e la commozione della poesia non basta a nascondere la realtà. Raccogliere & Bruciare implica che dopo la pestilenza bisognerà reinventarsi la vita da capo.