Cultura

Il tempo vuoto di Redeyef

Il tempo vuoto di RedeyefStreet art a Redeyef

Saggi «Il bacino maledetto. Disuguaglianza, marginalità e potere nella Tunisia postrivoluzionaria» di Stefano Pontiggia, per ombre corte

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 9 settembre 2017

La potenza dell’etnografia. La forza conoscitiva della profondità delle relazioni sociali, del tempo passato insieme, della reciprocità, dei racconti su una specifica realtà sociale elaborati in modo cooperativo: è questa intensità che esplode dalle pagine di Il bacino maledetto. Disuguaglianza, marginalità e potere nella Tunisia postrivoluzionaria, testo scritto da Stefano Pontiggia dell’Università di Ferrara per la collana «Etnografie» diretta da Pietro Saitta e pubblicata dall’editore ombre corte (pp. 229, euro 19).

COSA C’È AL CENTRO di questo libro? La traiettoria economica e politica della città mineraria di Redeyef, nel Sud della Tunisia. E, con essa, i suoi abitanti, con la loro crisi, ma anche le loro resistenze, le loro prospettive, i loro tentativi.
Insieme, al centro vi è la rivoluzione del 2011 e la relativa transizione politica, segnata non solo dai rapporti di forza costruiti nel presente, ma anche dalla più lunga storia coloniale e postcoloniale. Una transizione sospesa, soprattutto se vista e vissuta dai margini, lontano dalla capitale, ma anche dalle rappresentazioni scontate, dai resoconti già dati, dalle retoriche consolidate che mischiano orientalismo, discorsi sull’arretratezza e sul sottosviluppo, «pauperismo e resistenzialismo».

È questo il tentativo esplicito della ricerca presentata, quello di dare centralità ad un’area socialmente e spazialmente marginale, scendendo nei dettagli, non accontentandosi delle analisi già pronte, scavando, cercando di andare oltre il velo di sabbia che, come mostrato nel capitolo omonimo, tutto copre in una città segnata dall’industria di estrazione dei fosfati. Una politica di rapina ha caratterizzato il destino di questa città dai primi del ’900, governata dallo Stato, sia coloniale sia postcoloniale, come una zona sacrificata allo sviluppo.

A questa politica si è accoppiata quella delle rivolte, con il suo tessuto militante e i suoi lutti, come quelli patiti nel lungo periodo di scontri del 2008 ma anche nella lotta di liberazione dai francesi, e alcune vittorie, seppure effimere, come quella del 2011 contro il regime di Ben Ali, presentata nel capitolo «Tende».
La vita individuale e sociale va oltre questa storia, non si riduce a questi elementi strutturali, cruciali ma non esclusivi, anche se le opportunità di vita a Redeyef sono segnate dalla storia mineraria della città, legata a relazioni e processi nazionali e sovranazionali, come i capitoli «Margini» e «Miniera» presentano.

A ESSERE SEGNATA è anche la vita quotidiana, raccontata nel capitolo «Noia», dal sottotitolo emblematico: «di come il tempo sia una condizione di immobilità per chi è disoccupato o sottoccupato». Espressione della malinconia, ma anche di tentativi individuali di liberazione, come quelli espressi nelle speranze e nei progetti di chi vuole andare in Europa: «un orizzonte immaginario che consente di produrre futuri alternativi a quelli reperibili in loco».
La marginalità spaziale si accompagna alla marginalità temporale, mentre vita istituzionale ed economica si alimentano di questa stessa marginalità, come presentato nei capitoli «Elezioni» e «Denaro». Si tratta di una marginalità sociale, fatta di scambi politici e informalità, in cui lo Stato, anche postcoloniale, ha svolto, nel tempo, una funzione di controllo, riproduzione delle disuguaglianze e assoggettamento, più che di emancipazione e redistribuzione della ricchezza e delle opportunità.

ED È PROPRIO con lo Stato che il libro si chiude, raccontando uno Stato che, visto da Redeyef, non solo ha marginalizzato una delle città che maggiormente ha contribuito alla lotta anticoloniale, ma l’ha anche resa dipendente, subordinata a logiche clientelari.
A essere condizionati da queste logiche sono, pertanto, anche i soggetti e gli obiettivi del conflitto sociale, orientati a strappare livelli di negoziazione più favorevoli per ottenere maggiori trasferimenti di denaro e opportunità occupazionali dal centro, nel rischio continuo di schiacciare il conflitto sul presente, restringendo lo spazio per l’attivismo politico, sociale e sindacale impegnato a immaginare un paese diverso.

D’ALTRONDE, quest’ultima è una necessità contraddittoria per qualunque lotta, soprattutto se condotta in aree periferiche, in cui è fondamentale ottenere risorse a ogni costo, comprese quelle per l’integrazione sociale ed economica, vissute come un obiettivo da raggiungere per vivere meglio.
Del resto, è questo uno dei motivi determinanti per cui un conflitto si organizza, nonostante le incertezze che ne accompagnano lo svolgimento e quelle relative alle trasformazioni che a esso seguiranno, soprattutto in un contesto in cui si è consolidata l’idea, fondata sull’esperienza sociale di «un presente sempre uguale», che l’unico futuro possibile possa essere altrove

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