Enrico Letta ha annunciato nei giorni scorsi un grande piano di privatizzazioni. Utilizzando la scusa del debito pubblico, il governo italiano si sta apprestando a svendere l’argenteria di famiglia, a partire dalle poche imprese pubbliche che ancora esistono in Italia. L’annuncio si accompagna alle azioni devastanti già messe in campo da questo governo, a partire dal via libera alle trattative per il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip). Questo trattato, finalizzato alla costruzione di un’area di libero commercio tra Europa e Nord America – oltre ad enormi effetti geopolitici – avrebbe conseguenze devastanti su agricoltura, ambiente, welfare e aumenterebbe la concorrenza tra lavoratori. Il governo italiano e l’Unione Europea si apprestano quindi ad un ulteriore deregulation, ad incrementare ancora la capacità dei potentati economici di ricattare l’umanità, precarizzando a dismisura la vita delle persone. Non a caso l’altro progetto del governo Letta è la manomissione della Costituzione, ritenuta – a ragione – un ostacolo al dispiegarsi della potenza del capitale.
Queste azioni sono progettate e realizzate da un governo bipartisan in piena continuità con le politiche di austerità e le devastazioni fatte dal governo Monti. È una offensiva generale delle classi dominanti e delle principali forze del sistema politico – italiano ed europeo – che usano la crisi del capitale e della globalizzazione per distruggere gli elementi di civiltà costruiti in Europa dopo la seconda guerra mondiale: i diritti dei lavoratori, il welfare, la democrazia. Vi sono toni e accenti diversi ma la musica non cambia: in Italia come in Europa centrodestra e centrosinistra sono i protagonisti di questa rivoluzione conservatrice. Non si tratta di una parentesi ma di una strategia consolidata da tempo. Né possiamo non vedere come questa offensiva si saldi con un deciso salto di qualità nella repressione delle lotte sociali: le grottesche accuse di terrorismo piovute sul movimento No Tav nei giorni scorsi ci parlano di questo, e anche qui il Pd è in prima fila tra gli avversari.
L’assenza di una risposta collettiva – di cui portano una responsabilità gravissima i gruppi dirigenti del sindacato confederale – asseconda e accentua gli elementi di passivizzazione. Il senso di impotenza, di ineluttabilità, di rabbia priva di sbocchi pervade il corpo sociale. I femminicidi rappresentano l’emblema di questa situazione barbarica, in cui l’impotenza maschile si presenta nella forma della possessività omicida: un impasto micidiale tra la “lunga durata” del dominio maschile e le nuove devastazioni che la crisi produce nella testa delle persone e nel tessuto sociale. Non a caso gli omicidi delle donne si accompagnano alle gesta razziste che hanno individuato nella ministra Kyenge il bersaglio preferito. L’imbarbarimento rischia di essere il risultato principale della guerra che le elites stanno conducendo contro i popoli europei.
Credo che non possiamo più stare a guardare, a commentare, ad analizzare senza proporre. In questa crisi esiste un’Italia che non si è piegata e rassegnata, dalla Val Susa a chi si batte per la difesa della Costituzione, del lavoro, dei diritti, dell’acqua pubblica, come segnalava qualche giorno fa Alberto Lucarelli. Questa Italia che non si è piegata – fatta di centinaia di migliaia di uomini e donne che fanno parte di comitati, associazioni, sindacati e partiti – rappresenta una forza in grado di invertire la tendenza in atto. Perché il governo e le classi dominanti vincono ma non convincono, hanno il potere ma non hanno l’egemonia sulla società: usano lo spaesamento, la paura e la repressione come armi per evitare che emerga una alternativa. È così evidente che la prospettiva delle classi dominanti è folle, che la loro forza risiede principalmente nella mancanza di una alternativa, di un punto di vista strutturato e credibile alternativo al loro.
Io penso che dobbiamo costruire questo punto di vista alternativo, strutturato e credibile. Penso che dobbiamo costruire la sinistra, una sinistra, come scriveva alcuni giorni fa Alfonso Gianni, fuori e contro il Pd. Fino ad oggi l’aggregazione delle variegate forze di alternativa è riuscita a livello locale, basti pensare alle positive esperienze delle ultime elezioni amministrative. Si tratta di riuscire a fare un salto costruendo questa prospettiva sul piano nazionale, come negli altri paesi europei, fanno Syriza, Izquierda Unida, il Front de Gauche e tanti altri. Ed è chiaro che questa strada non si può percorrere ripetendo gli errori del passato: le forme pattizie, fatte di accordi di vertice non funzionano, come dimostra da ultimo la vicenda di Rivoluzione Civile.
Una sinistra non si può costruire attraverso percorsi scarsamente o per nulla democratici e politicamente ambigui: una sinistra va costruita attraverso un percorso di partecipazione democratica basato sul principio di una testa un voto e su chiari elementi di prospettiva politica. La definizione di una alternativa alle politiche neoliberiste italiane ed europee – e quindi al centro destra e al centro sinistra che ne sono interpreti – e la totale democraticità e trasparenza nell’organizzazione, devono essere le pietre miliari della costruzione della sinistra, che superi la divisione tra chi è iscritto ad un partito e chi no.
Marco Revelli qualche giorno fa diceva che serve un catalizzatore e che alcune persone potrebbero dare il segnale di inizio: sono d’accordo. Alcune persone che si propongano come garanti di un processo democratico chiaro nel suo indirizzo politico, potrebbero costituire il punto di partenza necessario per aggregare la sinistra. Ragioniamoci, parliamo, ma troviamo il modo perché il tempo stringe e sarebbe folle ripetere malamente gli errori già fatti in passato, registrando passivamente la frammentazione o arrivando a mettere insieme improbabili aggregazioni a pochi mesi dalle elezioni europee. Mettiamo facce nuove ma mettiamole.