La crisi economica che ha investito l’Europa negli ultimi anni ha profondamente mutato l’essenza e il senso stesso delle questioni e vicende politiche e sociali che avevamo conosciuto tra la fine del secolo scorso e gli inizi del nuovo. Ciò vale per il rapporto tra economia reale ed economia finanziaria. Vale per il rapporto tra lavoro e produzione. Vale per le differenze sempre più accentuate di opportunità, libertà e benessere tra ceti. Vale per le fratture tra il nord e il sud dell’Europa. Il Mezzogiorno è pienamente dentro questa crisi.

Negli anni ’90 e fino alla prima metà del decennio scorso è prevalsa la tesi, diffusa con un’operazione da manuale di egemonia culturale, secondo la quale lo sviluppo del Nord del paese poteva dispiegarsi pienamente solo liberandosi del peso morto del Sud. I governi di centro sinistra tentarono di porre un freno a quello che oggi, con un termine caro ai comunicatori, definiremo storytelling, ma troppo timidamente e con risultati alterni. Prevalse infatti, in quelle brevi stagioni di governo, l’idea delle “macchie di leopardo”, di un Mezzogiorno non più inteso come questione unitaria. Sembrava infatti che alcune esperienze positive di crescita territorialmente circoscritte potessero diffondersi e generare, quasi per spirito di emulazione, crescita economica diffusa. Così non è stato.

La questione meridionale, perdendo la sua unitarietà, si perse. Alcune vicende assai discutibili di governo del territorio hanno fatto il resto. Entrambe le tesi, tra cui senza dubbio prevalse la prima, appaiono ormai fuori contesto. E’ ormai evidente, anche tra coloro che furono i paladini del “Sud palla al piede”, che le regioni settentrionali, in un contesto di competizione globale, non bastano a loro stesse. Come evidente è che le storie di successo economico del Sud, al di fuori di un contesto di crescita strutturale e di riduzione del divario tra Nord e Mezzogiorno, hanno il fiato corto.

La crisi, che come ogni crisi nasconde sempre in sé anche le soluzioni, ha svelato molte illusioni, dalla fine della storia e del lavoro, alla fine della questione meridionale. Come non può esistere una questione meridionale, se negli ultimi venti anni il Mezzogiorno ha conosciuto un’emigrazione che ricorda un esodo più che una statistica? Come non può esistere una questione meridionale, se non un solo indicatore contraddice l’estensione del divario nel paese? Come tale questione non può non riguardare il paese intero, quando il declino del suo sistema economico sembra non arrestarsi, al sud come al nord? Siamo convinti che è possibile arrestare il declino, è possibile tornare a crescere e che tutto ciò è possibile solo riducendo quel divario.

E va detto, altra illusione o trucco svelato dalla crisi, con estrema chiarezza che non vi è nella storia economica un solo esempio di riduzione del divario economico e sociale di un paese che non abbia visto nel ruolo propulsore l’intervento pubblico e la concertazione sociale. Politica industriale, beni collettivi e comuni, sapere, ambiente, legalità: a ciò mirano le nostre proposte, che presentiamo sabato a Napoli e discuteremo nelle prossime settimane in tutto il Sud.

Quella che forse più offre il senso delle nostre proposte è il ripristino della cosiddetta “clausola Ciampi” con cui si prevede un vincolo di destinazione del 45% del totale delle risorse individuate per gli investimenti nel Mezzogiorno, criterio distributivo introdotto da Ciampi durante il primo Governo Prodi e mai rispettato. Ne offre il senso perché attesta il tempo perduto e che ancora si continua a perdere per il Mezzogiorno e il Paese.

* L’autore è presidente dei deputati di Sinistra Italiana