Domenica mattina ero al concerto che Alvin Curran ha eseguito al laghetto di Villa Borghese: in ogni barca c’erano quattro musicisti e un barcarolo, i suoni si spostavano sull’acqua, tutt’intorno centinaia di persone rapite e scagliate per un tempo magico fuori dalla loro quotidianità.
La città come teatro e il teatro come apertura della mente. Puro Simone Carella. L’altro ieri in ospedale mi hanno detto che quando è arrivato Alvin a trovarlo Simone ha mosso le dita come su una immaginaria tastiera e poi più nulla, si è allontanato nei luoghi arcani dove adesso si trova e dove non lo troveremo mai più.

Io quarant’anni fa lo trovavo sempre al Beat 72 e mi accoglieva: ero un ragazzetto di sedici anni, prendevo il treno da Napoli subito dopo scuola per venire a Roma dove Simone aveva intitolato la stagione del Beat La nascita del teatro, assistevo a performance mitiche come Autodiffamazione, Iperurania, Marina e ai lavori dei tanti artisti ai quali Simone apriva lo spazio, alcuni oggi famosi, come Giorgio Barberio Corsetti o Federico Tiezzi ma tutti allora straordinari, e tornavo la notte a Napoli col cuore pieno di emozioni. E davvero nasceva il teatro per me, in una forma che non mi ha più abbandonato, dal rapporto con lo spazio al senso collettivo del lavoro artistico, da un’idea ampia del territorio su cui muovere l’immaginazione alla cura veloce, precisa e politica del gesto che si vuole compiere. Tutti gli artisti di Simone, eravamo davvero tanti, erano, inteso come plurale di io, termine coniato da Simone per una delle sue incredibili rassegne. Iniziative di ii: ed era un aggredire Roma nelle forme più diverse e sorprendenti, un vero esercito dell’arte alle prese con una guerriglia che rimane oggi quanto di più vivo questa città ha saputo esprimere negli ultimi decenni.

Questo stesso teatro India è in qualche modo una sua creazione, perché io non l’avrei mai concepito che se non avessi partecipato a quella guerriglia. Nacque in pochi mesi, col gesto rapido e implacabile che mi aveva insegnato Simone, veleggiando sulle politiche e sulle burocrazie, con una visione in cui tutto doveva tenersi, la poesia come la realtà. E credo che in tanti gli siano o gli siano stati riconoscenti per questo suo sguardo.

Penso a Ulisse Benedetti, che mi accoglieva al Beat con Simone, penso a Giuseppe Bartolucci, papa di quel Beat 72 di cui Simone era il gran sacerdote, penso nauralmente a Renato Nicolini, col quale Simone creò un tandem irripetibile, un precipitato che abbiamo potuto toccare con mano di quella che veniva sognata come rivoluzione, veloce ma vero come una stella cadente. So che Simone aveva parecchi progetti ai quali stava lavorando e che non si è fermato mai. Non mi sorprende.

Il suo tempo era quello degli artisti dell’avanguardia storica, in qualche modo eterno. Uomini come Simone il tempo non lo hanno vissuto, lo hanno creato. La morte è un dettaglio. Sempre viva Simone Carella.