Chi sono le Sorelle Macaluso? Cinque donne, ragazze e adolescenti, vivono sole nella grande casa da cui si scorge il mare. È un po’ lasciata andare, piena di oggetti, ninnoli, il servizio buono e le sciocchezze che specie una di loro raccoglie in giro, il tempo è immobile o destinato a raggelarsi come le loro liti, i legami, le fantasie che ciascuna nasconde. Gesti ripetuti, la bella il rossetto passato infinite volte sulla bocca, la piccola che la imita, una che legge, un’altra che mangia troppo, un’altra ancora che vuole essere ballerina e in un’arena che si chiama Sirenetta bacia la sua prima ragazza. Siamo a Palermo, in cima al tetto le sorelle allevano colombe che affittano ai matrimoni, una domenica d’estate vanno al mare, le aspetta l’albergo di lusso in cui non riescono mai a entrare. Ma può valere una vita quell’ostinazione?

PER IL SUO secondo film – che chiude il quartetto dei titoli italiani in concorso – Emma Dante lavora sulla sua omonima pièce teatrale, Le sorelle Macaluso, racconto tutto al femminile di interni fisici e emozionali, di esistenze negate nei sensi di colpa, in un’azione, in una cesura a cui riportarne la tragicità – per loro la morte della sorellina minore, proprio quel giorno sulla spiaggia affollata di Mondello. E allo stesso modo che nel suo esordio su grande schermo, Via Castellana Bandiera – dal suo romanzo, Coppa Volpi nel 2013 a Elena Cotta – Dante prova a «mischiare» il suo teatro dentro alle immagini senza detour, adattamenti, traduzioni, quasi in sovrimpressione.

MA QUI la scommessa si inceppa, come già non aveva funzionato in precedenza. Cosa è che manca, cosa è che si perde? Il tempo, la narrazione, il movimento in cui si contraggono e dilatano le ossessioni famigliari e i loro universi claustrofobici, che non trovano spazio dentro alle immagini, e non bastano salti, fisicità esibita (che invece funzionava moltissimo sul palcoscenico), voli di colombe, sequenze di musica, cambiare le attrici – anche loro un po’ spaesate, altra cosa strana per una regista che con gli attori è sempre precisa – compresa la sempre intensa Donatella Finocchiaro – a dirci sentimenti, pulsioni, nevrosi, infelicità di quei personaggi. Così anche quei gesti che ondeggiano tra giovinezza, età adulta, vecchiaia si svuotano di senso, appaiono quasi in forma di stereotipi, insistiti, fin troppo sottolineati, più che una narrazione diventano una gabbia dentro la quale però non ritroviamo quella che avvolge i personaggi. Sappiamo già tutto, fin troppo di queste femminilità condannate e delle pareti che le circondano cadendo a pezzi pian piano coi loro ricordi come loro. Conosciamo le grida, le liti, la pazzia, le frustrazione, gli amanti, i mariti, la malattia ma il cinema chiede altro alla parola, e questa allo stesso modo c può sorprenderlo. Un incontro? Forse, e forse pure e la sua invenzione che la regista lascia invece con qualche eccesso di convinzione lascia da parte.