Scopo di questo saggio non è tanto redigere statistiche e contare quote rosa, né tentare di psicoanalizzare post mortem un uomo grande e grosso che si immagina ragazzina e nella cui vita il padre sembra giocare un ruolo marginale. Si tenterà piuttosto – attraverso l’analisi di documenti d’archivio che consentono una ricostruzione parziale del progetto dell’esposizione La Mamma – di indagare la posizione di Harald Szeemann rispetto alla relazione problematica tra creazione artistica e femminilità in un momento storico, i primi anni ’70, in cui questi temi erano di scottante attualità.

La progettata trilogia di mostre (tra il 1972 e nel 1983, egli lavorò a Macchine celibi, Monte Verità e Der Hang zum Gesamtkunstwerk, La tendenza verso l’opera d’arte totale, elaborando il progetto per un’esposizione intitolata La Mamma, inizialmente pensata come secondo capitolo della trilogia e incentrata sul tema della maternità come alternativa all’arte) si poneva come scopo la visualizzazione di tre grandi miti che, secondo Szeemann, avevano informato lo sviluppo della cultura del XX secolo: la macchina celibe, la mamma e il Sole.
Questi tre personaggi sembrano riferirsi a specifiche pose, mode e movimenti che si sviluppano nella cultura dei primi decenni del secolo, ma allo stesso tempo rappresentano per Szeemann una maniera assolutamente personale per riflettere sul rapporto tra artista e società e sul ruolo della creatività nello sviluppo psichico dell’individuo, attraverso fasi consecutive che sembrano rievocare il processo di individuazione descritto da Carl Gustav Jung.

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Harald Szeemann

La macchina celibe rappresenterebbe, infatti, il tentativo di esorcizzare il passare del tempo attraverso una chiusura nei confronti del mondo esterno: l’arte come castello incantato dove rimanere giovani per sempre, a patto di trasformarsi in una macchina per dipingere. La macchina celibe è un delirio autoerotico in cui l’energia (il seme) non viene rilasciata ma continuamente reinvestita nell’ossimoro di una produzione asessuata (e torna alla mente Ensor, il pittore di Ostenda incatenato alla sua Arte, generato egli stesso dalla spuma del mare: anadiomene).
La figura della mamma avrebbe rappresentato l’esatto opposto: totale dispersione dell’energia che attraverso il dono della vita si raddoppia. Vivere per il prossimo, sacrificare la vita per i propri figli. In questo schema, come vedremo, l’arte non trova più posto, non ci sarebbe più bisogno di alcuna fuga: al contrario, tale conclusione implicherebbe in maniera pericolosa che la donna, in quanto madre, non abbia la necessità esistenziale di essere artista.

L’esposizione dedicata al Sole – altro progetto non realizzato il cui riferimento principale sembra essere stato Francesco d’Assisi – avrebbe rappresentato una sintesi tra le due opposte direzioni del celibe e della madre e avrebbe descritto l’artista finalmente liberato dall’isolamento del proprio narcisismo e l’arte come una luce che illumini il cammino dell’umanità verso un futuro più equo e sostenibile.
Se il Sole rimane poco più che un titolo menzionato saltuariamente da Szeemann in interviste, testi e lettere, il ritrovamento di un piccolo appunto del 1975 in cui il curatore immagina la distribuzione delle sale per la mostra La Mamma a Venezia consente alcune speculazioni ulteriori su quale forma avrebbe potuto prendere questa esposizione che era stata per lo più immaginata senza uomini e senza arte.

Lo spazio rappresentato nello schizzo è verosimilmente quello dei Magazzini del Sale dove, a quel tempo, il curatore stava allestendo Le macchine celibi. Nella bozza per La Mamma, gli ambienti dei Magazzini sono organizzati in cinque spazi lunghi e stretti e i contenuti in quattro aree tematiche facilmente individuabili: uno spazio introduttivo che sembra considerare la maternità vista attraverso gli occhi degli uomini; un secondo ambiente dedicato alla maternità stessa; una terza sezione, ospitata in due magazzini, avrebbe analizzato la rinuncia alla maternità nel passato (il capitolo descritto come «ieri», con esempi dalla seconda metà del XIX secolo fino agli anni ’60); l’ultima parte avrebbe analizzato la rinuncia alla maternità oggi.

Il disegno e le interviste rilasciate dal curatore negli anni successivi permettono quindi di visualizzare un percorso che dalla maternità immaginata e rappresentata dagli uomini passasse attraverso l’esperienza della stessa intesa nel suo senso più ampio, come un investimento energetico verso l’altro, un aprirsi al mondo – quello che Szeemann chiamava «doppia potenza» – che può configurarsi come l’esperienza della gravidanza vera e propria o come una rinuncia alla stessa, sostituita da forme alternative di maternità spirituale.
La prima parte dell’esposizione avrebbe probabilmente ospitato alcune raffigurazioni della maternità del passato (fine XIX secolo / i pittori / medioevo, si legge nell’appunto), insieme a materiale riguardante pensatori e scrittori che sviluppano i temi della mostra nelle forme più svariate. Negli scritti dello storico e antropologo Johann Jakob Bachofen (Amazzone – sic – / mitologia / matriarcato), l’analisi dello scontro tra autorità paterna e coniugale e la vita considerata nella sua naturalità come equa e solidale – uno dei cardini della mostra – si sviluppa nello studio delle società ginecocratiche che, secondo Bachofen, erano una fase obbligata nello sviluppo dell’umanità, caratterizzate dalla comunione dei beni e dalla vicinanza alla natura rispettata e temuta come divinità. Wilhelm Reich – un altro pensatore che avrebbe avuto un ruolo centrale nella prima parte della mostra – invece correlava la salute psichica alla scarica completa dell’eccitazione nell’orgasmo: secondo Reich, la liberazione dell’energia dell’orgasmo era impedita e castrata dall’organizzazione patriarcale e autoritaria della società, in primo luogo attraverso l’organizzazione del nucleo familiare che Reich identificava come il principale strumento di repressione della sessualità infantile.

In generale, Szeemann in questo periodo sembra affascinato da pensatori che cercano di espandere il pensiero freudiano oltre il campo medico, e di immaginare una nuova società e un nuovo approccio allo studio della storia e della cultura, a partire dalle scoperte della psicoanalisi. Basti pensare non soltanto a Reich, ma anche alle figure di Otto Gross, Carl Gustav Jung ed Erich Neumann che sarebbero tornati nel progetto espositivo dedicato alle comunità utopiche raccolte attorno a Monte Verità messo in scena da Szeemann ad Ascona nel 1978. L’analisi del contributo della psicoanalisi al controllo e alla repressione del desiderio e della società diverrà – attraverso la lettura dell’Anti-Edipo (L’Anti-Œdipe, 1972) di Gilles Deleuze e Félix Guattari – anche uno dei nuclei concettuali dell’esposizione Le macchine celibi.

Resta molto difficile ipotizzare quali opere o documenti il curatore avrebbe mostrato nella sezione dedicata alla gravidanza. La bozza dei Magazzini del Sale elenca contra / pro / doppia potenza / sviluppo / rifiuto / amore / odio / accettare la morte.
È quindi chiara l’opposizione rispetto al concetto della macchina celibe: la gravidanza è descritta come un’esperienza che consente all’individuo di scendere a patti con la propria mortalità anziché opporvisi strenuamente e inutilmente. Szeemann sembra inoltre interessato all’ambivalenza del rapporto che si instaurerebbe tra madre e neonato: amore o rifiuto, vita o morte, maternità o creatività – una serie di dilemmi visualizzati in maniera esemplare dall’Angelo sterminatore (1931) di Meret Oppenheim, già esposto nella mostra Le macchine celibi. Un’affascinante sintesi di motivi iconografici che spaziano dall’immagine della Madonna con il Bambino alla Pietà passando per atmosfere apocalittiche degne di Hieronymus Bosch, il disegno di Meret Oppenheim rappresenta una donna che si erge su un mucchio di cadaveri e tiene in grembo un neonato al quale ha appena mozzato il collo. L’artista, all’epoca diciottenne, realizza L’angelo sterminatore come amuleto contro la fertilità, per sfuggire al ruolo predeterminato di moglie e madre, e potersi affermare come artista.

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Meret Oppenheim, «L’Angelo Sterminatore», 1931, courtesy by Siae 2015

In una lettera a Szeemann, l’artista spiega: «Più che altro ha a che fare con la magia nera, in un tempo in cui la pillola non esisteva. Altrimenti non sarebbe stato necessario realizzarla».
Molti più indizi consentono di fantasticare a riguardo della sezione dedicata alla rinuncia alla maternità, attraverso una lista di nomi che il curatore appunta nel disegno: Emma Kunz (indicata come «E. K»); Helena P. Blavatsky e Annie Besant, guide del movimento teosofico; un riferimento di difficile interpretazione ai figli artificiali / Baronessa von Koff; Mirra Alfassa, mistica nota come la Madre (Mamma / Auroville / Spirale); la psicoanalista e romanziera Lou Andreas-Salomé, e la scandalosa autrice en travesti George Sand. Sembra che la rinuncia a diventare madre – o la rinuncia ai propri figli come nel caso di Annie Besant – sia dovuta alla ricerca di un ideale più alto, nel tentativo di trasformarsi in guide spirituali e madri dell’intera umanità.

Più specificatamente, la rinuncia sembra comportare lo sviluppo di forme di maternità alternativa, come nel caso di Emma Kunz che, negli ultimi anni di vita, si dedica alla polarizzazione dei fiori, fenomeno paranormale per cui la medium era in grado di far germinare nuovi boccioli da un fiore già sbocciato; o come in quello di Andreas-Salomé, di cui si dice che fosse in grado di generare idee e progetti per interposta persona, ispirando tutti gli uomini che le stettero vicino a pubblicare un libro esattamente dopo nove mesi di convivenza. Questi fenomeni sono spesso legati al rifiuto del rapporto di coppia e dell’istituto del matrimonio, per cui tutte le figure elencate, in modi diversi, condividono storie di sessualità atipica, in uno spettro che va dalla verginità al libertinaggio sfrenato. Come già nella parte introduttiva della mostra, anche in questa sezione sarebbe stato evidente lo scontro tra l’autorità in molte delle sue forme (statale, paterna, maritale) e il bisogno di seguire la strada del bene, della giustizia e della libertà.

Risulta di nuovo più complesso immaginare quali opere e personaggi Szeemann avrebbe potuto presentare nell’ultima sezione della mostra che sarebbe stata dedicata alla rinuncia alla maternità oggi.
Le poche parole appuntate – info / giurisprudenza / lotta / iniziative – fanno pensare a un interesse per il secondo movimento femminista e per le battaglie portate avanti tra gli anni ’60 e ’70, come il divorzio e l’aborto in Italia, o il diritto di voto in Svizzera, conquistato solo nel 1971. In un’intervista rilasciata negli anni ’80, Szeemann accenna a un certo imbarazzo provato di fronte ad alcuni dei temi della sua mostra sulla maternità, sollevati proprio in un momento così caldo come gli anni settanta, nel bel mezzo delle rivendicazioni dei diritti delle donne. Questa è probabilmente una delle ragioni per cui il curatore svizzero decise di abbandonare la mostra sulla mamma e concentrarsi invece su quella del Monte Verità, un progetto che consentì di toccare parzialmente temi analoghi, ma con una maggiore distanza storica.

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Olga Fröbe-Kapteyn, «Luce dell’anima 13», 1927-1934, © Fondazione Eranos

Le figure di Carl Gustav Jung ed Erich Neumann, che proprio nelle Conferenze Eranos sulle sponde del Lago Maggiore svilupparono la ricerca sull’archetipo materno nella storia delle civiltà, sono il punto in comune più evidente tra La Mamma e Monte Verità. La ricerca di Jung – così come per certi versi quella di Rudolf Steiner – permette al curatore di riflettere allo stesso tempo su aspetti psicologici, religiosi e sociali, in una visione che per progressivi cerchi concentrici sembra amplificare la forza dell’arte, dalla mente del suo ideatore fino ad abbracciare l’umanità intera.
Negli anni successivi, Szeemann tornerà spesso su questi temi, come nel progetto non realizzato per l’Expo di Hannover 2000, dedicato all’amore e alla sessualità, in cui agli argomenti accarezzati fin dagli anni settanta si aggiungono gli spettri dell’Aids e della clonazione umana. Negli ultimi anni di lavoro del curatore, l’attenzione per le artiste donne sembra assumere un’importanza ancora maggiore: basti pensare alla retorica forse un po’ paternalista del Padiglione Italia tutto «in rosa» per la Biennale di Venezia del 1999, per la quale Szeemann decide di accorpare le opere di cinque giovani artiste in un padiglione virtuale. Negli stessi anni, il progetto della mostra sulla mamma continua a svilupparsi e a espandersi e viene ripreso negli anni ’90 per la Spagna e all’inizio del nuovo millennio per il Ticino.

La Mamma rimarrà però sempre un sogno irrealizzato, a lungo conservato e accarezzato, spesso rivisitato ma profondamente ancorato alla metà degli anni settanta, al momento in cui Szeemann da «lavoratore spirituale all’estero» – come amava definirsi in quegli anni – sente la necessità di spingere il mezzo espositivo verso qualcosa di mai sperimentato: la visualizzazione di concetti astratti che costituirebbero dei fenomeni carsici nella cultura del XX secolo. Come gli archetipi junghiani, la macchina celibe, la mamma, il Sole e l’opera d’arte totale costituiscono dei nodi di significati opposti e inconciliabili, che si risolvono temporaneamente in immagini. La progressione della trilogia di mostre di Szeemann – rappresentazione di strati psichici che riemergono in vari momenti della storia individuale e culturale – indica uno sviluppo possibile dell’io attraverso un rapporto integrato con i flussi del subconscio e con le istanze collettive. Sviluppo sul quale Szeemann proietta inevitabilmente la sua esperienza personale, condizionata dai grandi sconvolgimenti che avvengono nella sua vita tra il 1969 e il 1975 circa: la decisione di lasciare la Kunsthalle di Berna, il divorzio, un nuovo amore, la nascita della terza figlia, Una, e il trasferimento in un Sud – prima Civitanova Marche e poi Tegna – che assume presto tratti mitici.

La Mamma, quindi, non andrebbe semplicemente considerata una mostra sulle donne o sulla «donna», o tanto meno sul femminismo. Visto attraverso questi dati sparsi, il periodo che va dalla fine degli anni ’60 alla fine dei ’70 – decennio in cui Szeemann si concentra sulla sua vita in Ticino e sulla storia del Monte Verità – assume i tratti di una mascherata uscita da un quadro di Ensor, in cui il curatore di documenta 5 chiede un ballo alla timida signorina. Ben presto la pista si fa affollata, e tra i due si insinuano il celibe, la mamma, il nonno, il Sole, Twiggy e la Venere di Willendorf, in una visione del XX secolo, del proprio sé e della propria figura professionale che si fa sempre più sfaccettata. All’interno di questa visione complessa, e non in una semplice dinamica di potere e scontro tra uomo / padre / curatore e donna / madre / artista andrebbero letti i molti nodi problematici irrisolti che contribuirono a fare della Mamma un progetto abortito.

 

SCHEDA MOSTRA

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Keith Admier, 1967-98 (foto Lamay Photo)

La mostra milanese (26 agosto – 15 novembre) è a cura di Massimiliano Gioni, promossa da Comune di Milano / Cultura, ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi insieme a Palazzo Reale per Expo in città 2015. Vi si indaga l’iconografia materna vagabondando nella cronologia, arrivando fino al Novecento delle avanguardie, non disdegnando l’aiuto visivo e visionario degli artisti e artiste del terzo millennio, senza dimenticare però le raffigurazioni del passato. Così, si viaggerà dentro un percorso multimediale (ci saranno anche alcune proiezioni di film muti degli albori del secolo scorso) in compagnia di Veneri paleolitiche e «cattive ragazze» del post-femminismo, passando per la tradizione millenaria della pittura religiosa con le sue innumerevoli scene di maternità, spesso simbolo della creatività e metafora della definizione stessa di arte. Centoventisette le opere formeranno quella sorta di «museo temporaneo a tema»: saranno disposte su 2000 mq., in un allestimento firmato dallo studio Goto Design di New York. Nelle varie sezioni, sfileranno futuriste, surrealiste e dadaiste, ma anche le americane ribelli, da Judy Chicago a Barbara Kruger e Joan Jonas, e le europee come Katharina Fritsch, Rosemarie Trockel, Catherine Opie. In compagnia di diversi artisti dell’altro sesso, da Nicole Eisenman a Cattelan fino a Thomas Schütte e Nari Ward.