Che cosa vuol dire fenomenologia? È un altro nome, un modo diverso per indicare la filosofia stessa, la filosofia in quanto tale. La fenomenologia non è infatti una corrente di pensiero tra le altre, non è una scuola con i suoi maestri e con le sue certezze più o meno dogmatiche. È un metodo di indagine sugli enti, gli eventi e i processi che si manifestano nel mondo. Ma non è neppure soltanto questo: è il pensare umano che si fa attraversare dalle domande essenziali sulla struttura di ciò che esiste e sul modo in cui esso appare alla coscienza. Questa sua natura emerge con chiarezza dalla documentatissima Storia della fenomenologia, curata da Antonio Cimino e Vincenzo Costa (Carocci, 2012). In quanto espressione dell’essenza della filosofia, la fenomenologia è stata sin dai suoi esordi caratterizzata da una grande pluralità di atteggiamenti teoretici, di risposte tanto argomentate quanto radicali alle domande in cui consiste il lavoro filosofico, di intersezioni con discipline non filosofiche. È anche per questo che «è diventata una koiné non solo filosofico-culturale, ma anche interdisciplinare» (Cimino – Costa). Come tutti i linguaggi trasversali, la fenomenologia è una prospettiva plurale, aperta, comunitaria, critica, che ha molti obiettivi.

La costruzione dei sensi

Tra di essi, uno dei principali è il chiarimento «di come le cose e il mondo ci sono dati». «A forza di osservare una pietra, un animale, un quadro – scrisse Gustave Flaubert – ho sentito di entrarvi»: è questo particolare sentimento, in cui consiste la conoscenza, che la fenomenologia cerca di comprendere mediante la descrizione dei «fenomeni puri della coscienza, gli Erlebnisse (…) prescindendo da spiegazioni realistiche o da particolari costruzioni intellettuali e risalendo dalla singolarità e dall’individualità della moltitudine dei fatti empirici alla pura generalità delle essenze» (A. Civita – A. Molaro). I dati percettivi – quelli che acquisiamo tramite la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto – non stanno soltanto davanti a noi, ma sono anche noi stessi. Di fronte e intorno a noi si dipana una massa sterminata di forme, suoni, colori, vibrazioni, densità. Tale massa esiste indipendentemente da qualunque sistema in grado di percepirla, capirla, ricordarla. È per questo che la comprensione e interpretazione che la nostra mente fornisce del dato non può essere arbitraria. Nella celebre figura gestaltica del vaso/profili noi possiamo scorgere ora il vaso ora i profili ma non possiamo vedervi dell’altro, ad esempio un gatto. In questo senso, la sintesi è sempre passiva ed è insieme attiva, frutto del compenetrarsi dell’oggetto o dell’evento fisico-chimico con il suo essere una particolare manifestazione/fenomeno (noema) e con la modalità con la quale noi attribuiamo un preciso significato a tale manifestarsi (noesi). Noema e noesi sono atteggiamenti intenzionali, vale a dire sempre rivolti alla comprensione della realtà specifica e generale delle cose e alla compenetrazione con essa: «Così, se giriamo attorno ad un tavolo ci accorgiamo di avere, in ogni istante, sensazioni diverse, e tuttavia diciamo di vedere lo stesso tavolo. Dunque, attraverso una molteplicità di sensazioni si manifesta qualcosa di identico, e questo avviene perché la coscienza, attraverso l’intenzionalità, ha la capacità di interpretare le sensazioni come manifestazioni di un oggetto identico» (Costa). Indubitabile non è quindi il contenuto trascendente di un fenomeno – ciò che esiste fuori di noi e rispetto al quale va sospeso il giudizio (epoché) – ma è la sua struttura immanente, il modo in cui appare a noi, il suo manifestarsi, il suo fenomeno. Che si debba andare al di là dell’ingenua credenza nell’oggettività del dato sensibile significa che bisogna porsi prima di esso, raggiungere quel territorio dell’essere e del pensare che rende possibile il darsi delle cose. In questo modo, i limiti della conoscenza umana vengono pienamente accettati: non per cadere nella rassegnazione scettica o nel puro formalismo della razionalità soltanto matematica, ma per cogliere con rigore metodologico e prudenza epistemologica tutto ciò che si dà, così come si dà e nei limiti in cui si dà. È questo che Husserl definisce il principio di tutti i principi, quello che prepara alla metafisica intesa come la più radicale interrogazione posta all’essere delle cose e al loro divenire, quello che prepara al superamento dei tanti dualismi nei quali si è espresso il limite della stessa metafisica, la quale va dunque oltrepassata. Non per negarne la radicalità fenomenologica, piuttosto per stigmatizzarne la mancanza di coraggio nel lasciarsi alle spalle le troppo facili risposte costituite dal permanere, appunto, delle più variegate ma non per questo meno sterili forme di dualismo: assolutismo/relativismo, razionalismo/empirismo, natura/coscienza, corpo/mente, idealismo/riduzionismo, esternalismo/internalismo, teoria/prassi, scienza/vita. Una delle ragioni e delle radici che permettono di oltrepassare queste e altre forme di dualismo è la costante attenzione che la fenomenologia ha dedicato alla questione del tempo: «Il tempo e le sintesi temporali sono una condizione trascendentale di possibilità senza le quali non potremmo avere esperienza del mondo» (Costa). Se Heidegger è sempre rimasto un fenomenologo, nonostante la rottura teoretica e personale con Husserl e le modalità originali del suo percorso, è anche perché la questione del tempo è centrale sia nella fenomenologia husserliana sia nel pensiero dell’essere. Anche altri allievi di Husserl – come Edith Stein, Maurice Merleau-Ponty, Jan Patocka – individuarono nella vita della coscienza e nel mondo della vita un «flusso originario» fatto di trasformazioni dei contenuti e insieme di costanza della forma, un movimento che non accade in un sostrato più primitivo poiché è proprio questo divenire il sostrato in cui accadono enti, eventi e processi.

Verso la «compresenza»

Il tempo è anche la differenza tra il passato accaduto e il passato presente, quello continuamente riscritto a partire da una traccia che non è scolpita nella roccia ma segnata sulla sabbia della mente, sopra la quale passa e ripassa di continuo l’insieme delle anticipazioni e dell’attenzione. Essere vivi significa non soltanto avere un futuro aperto ma vuol dire poter riscrivere continuamente il passato a partire dall’attesa di quanto deve ancora accadere. Il fenomenologo giapponese Nitta Yoshihiro lo ha espresso in questo modo parlando del presente vitale: «In esso si coappartengono intrinsecamente il ’fluire’ e l’’arrestarsi’, sebbene si escludano a vicenda e siano irriducibili fra loro» (Shigeru Taguchi). Il tempo è tale compresenza di identità e differenza, che il pensare fenomenologico ha colto in modo molteplice e radicale. Anche per questo la fenomenologia non ha soltanto una «storia» ma ha un avvenire di indagini radicali e fondanti. Quel tipo di indagini in cui consiste la filosofia.